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Storia di un detenuto
I parte: Il giorno del mio arresto
VI parte: Un diario per Nico

Comincia a scegliere la torta del mio compleanno amore mio, manca poco e staremo ancora insieme e ti prometto che questa volta non farò le stupidaggini che mi hanno condotto a separarci… Aspettami… Comunque, cerco di vedere il lato positivo della situazione, almeno qui non devo pagare l’affitto né le bollette, e ho un tetto ed una coperta. Ho più tempo per leggere ed imparare la lingua. A proposito, sai che sto leggendo un libro di Freud che s’intitola ‘Passione della mente’, è meraviglioso!

(dal diario)

Faceva molto caldo quel giorno di inizio giugno, il sole batteva forte e dava un senso di stare all’aperto. C’era anche un po’ d’aria, ma, essendo i muri alti più di quattro metri, non sentivamo il vento. Camminavo con l’algerino più anziano della sezione, che forse stava lì da più tempo di tutti quanti. Mi aveva invitato ad offrirgli una sigaretta e a conoscerci. Mi chiese il motivo per cui ero dentro e, quando gli risposi a tutte le domande concernenti il reato e l’arresto, fece uscire dalla tasca l’articolo del giornale dove si parlava di me, Sù, Maria e Pino, e mi disse : “Ah! Quindi questo parla proprio di voi?“. Gli dissi di sì e capii che ero sotto esame.

Mi raccontò che in quella sezione c’erano tre nazionalità che formavano tre clan. Mi disse di fare attenzione ai rapporti coi tunisini e i marocchini perché, al contrario degli algerini, loro parlano la lingua dei coltelli e del sangue e poi – mi disse – perché, se succedeva un problema, non potevamo permetterci “ancora” di batterci contro uno dei due clan per il nostro numero scarso…

Mi sentii minacciato da lui, mi fece capire che dovevo scegliere tra farmi proteggere dai miei connazionali ad un costo sconosciuto o trovarmi da solo a difendermi da tutti quanti. Senza rispondere mi ritirai nel bagno del cortile e ci restai chiuso a pensare a come evitare di appartenere al clan: “Se scegliessi di isolarmi, potrei anche subire minacce dentro la mia cella da parte dei miei connazionali Hamid e Houcine, ma se scegliessi di farne parte non so ancora quanto mi costerà!“.

Nella preoccupazione uscii e vidi tutti che indicavano un foglio di giornale che si faceva sollevare dal vento nell’angolo del cortile, era così leggero ed allegro nei movimenti, incantava tutti noi innalzandosi volteggiando nell’aria, centimetro per centimetro, e tutti in silenzio lo osservavamo come se volessimo essere al suo posto. Ero quasi geloso del foglio. Anche quel pezzo di foglio, non sopportando più quell’aria pesante che respiravamo, sfuggì e ci lasciò ancora dentro le mura grigie a pentirci per quel che avevamo fatto…

Ogni sera dopo cena, i tunisini litigavano per un motivo banale fino a tarda notte e, essendo tossicodipendenti, la mattina verso le sette uscivano a prendere il metadone e ricominciavano ad urlarsi contro. Insomma, non passava un giorno senza che qualcuno perdesse il controllo e facesse casino. Perciò, per paura di essere coinvolto involontariamente in una rissa, evitavo di uscire dalla cella e rimanevo chiuso a leggere, scrivere o guardare la televisione.

Le giornate erano diventate tutte uguali, mi svegliavo quando, alle 10 del mattino, il lavorante buttava per terra dalla porta la frutta e il pane. Mi facevo il caffè e mi mettevo dietro la finestra a guardare il cielo e gli alberi in lontananza, pranzavo a mezzogiorno, poi guardavo il telegiornale “Studio Aperto”, alle 13:30 l’ora d’aria e se non uscivo mi mettevo a leggere i libri che mi ero fatto portare dal bibliotecario. Alle 16 l’ora della socialità, durante la quale i miei coinquilini ospitavano un nostro compaesano che rimaneva con noi fino a quando arrivava il carrello della cena per le 17:30. Mi facevo la doccia, poi riscaldavamo il cibo e mangiavamo per le 19. Di sera guardavamo le partite di calcio o i film. A mezzanotte loro due si addormentavano e io restavo sveglio a scrivere fino alle 4 del mattino circa. Le uniche due cose che rompevano quella routine erano o un colloquio con l’avvocato oppure una lettera da parte di Nico.

Che bella sensazione quando sentivo gridare l’agente: “La postaaaa!“. Mi mettevo sempre sulla porta ad aspettare che arrivasse qualcosa per me, le 13 era l’ora in cui mi sentivo far parte ancora del mondo esterno, mi sentivo pensato, amato e ricercato ancora. Ogni volta che ricevevo una lettera mi trasformavo in un bambino che non vede l’ora di avere il suo regalo tutto per sé. L’ora della distribuzione della posta era un momento triste per tanti di noi, ma era anche un momento di vincita per alcuni come me. Quell’ora era un momento sacro, anzi, per me era il momento della libertà, la libertà di avere contatti al di fuori della sezione e della popolazione del carcere… L’ora della posta per quattro giorni a settimana era l’attimo della mia estrema felicità.

Nel primo mese Nico mi scrisse di aver ricevuto solo una lettera, anche se gliene avevo spedite una decina. Scoprii che le lettere senza francobolli venivano buttate e scoprii anche che il lavorante che quel mese aveva il compito di imbucare tutte le lettere per chi non poteva uscire dalla cella, toglieva i francobolli e li scambiava con le sigarette. Da quel giorno ho iniziato a imbucare tutte le mie lettere da solo.

Mancava una settimana al mio compleanno e iniziai a sentire la pesantezza della vita in carcere. Non avevo più internet né potevo chiamare qualcuno al cellulare, non potevo più camminare di notte come una volta, non avevo più il potere di aprire la porta e uscire a bagnarmi sotto la pioggia, non potevo più appoggiarmi ad un albero perché tutto era di cemento, non avevo più nessun contatto con la mia famiglia da più di un mese, nemmeno un sms. Non avevo più il diritto di cercar lavoro o studiare a qualunque ora del giorno. Non potevo più guardare le trasmissioni che a me piacciono in tv perché il più vecchio della cella è sempre lui a scegliere il programma preferito. Non potevo più parlare di musica, di cinema o semplicemente farmi due risate durante un aperitivo con degli amici… Non potevo più camminare per cinquanta metri in una direzione, senza limiti e limitazioni.

Amore mio, sento che fai fatica ad esprimerti e confidarti con me, ultimamente ti sento distante. Sinceramente, non vorrei costringerti a starmi vicino adesso che sai tutto quello che ho fatto a tua insaputa, ma ho davvero bisogno di te, ho bisogno che tu mi menta, ho bisogno che tu mi dia il motivo per cui combattere e continuare ad avere fiducia nel futuro, ho bisogno di una speranza… Non ti chiedo di passare il resto della tua vita con me adesso che sai cosa ho fatto, ma ho bisogno che tu mi faccia sognare, dimmi bugie e fammi continuare a sperare di vederti un giorno, non lasciarmi solo perché senza di te mi lascerei andare, mi sento sprofondare nell’oblio e l’unica luce che m’illumina quando cala il buio è la tua immagine incisa ormai dentro di me… Nico, ho bisogno di respirare… Mi sento soffocare…

(dal diario)

scrissi quella notte, mentre tutti dormivano, appoggiandomi sulla porta che faceva entrare un filo di luce dal corridoio. Pensavo al giorno del mio arresto, quando non ero uscito a prendere il caffè in via Zamboni prima di andare a lezione come al solito, pensavo a quando avevo rifiutato l’invito di Nico a pranzare con lui prima di andare all’università, pensavo a quante possibilità avevo di stare fuori casa, lontano da Sù quel pomeriggio… e iniziai ad andare in depressione.

Azhar
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VIII parte: I miei compagni

2 Comments

  • lyas ha detto:

    Grazie tante 🙂 l'amore è un sentimento che si ha dentro ma quando si crede di perderlo, secondo me, è semplicemente perché si ha bisogno che quella fantastica emozione, con tutto quello che porta con se, venga alimentata e provocata dopo essersi spenta per un motivo o un altro. Perciò credo e spero che ci sarà Nico, e solo lui, a farmi provare ciò che provo per lui… per sempre! Staremo a vedere nelle prossime pubblicazioni. La prossima settimana ce ne sarà una.
    Lyas

  • Anonimo ha detto:

    CIAO LJAS, SPERO DI SAPERTI LIBERO PRESTO, TI AUGURO DI AVERE GIUSTIZIA'CHE TU POSSA TROVARE LA FORZA E L'AMORE DI NICO AD'ASPETTARTI. TI MANDO UN ABBRACCIO MATERNO CIAO PICCOLO GRANDE UOMO.

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