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Mentre la Palma d’oro del festival di Cannes, in Francia , è stata vinta dal regista tunisino  Abdellatif Kechiche (Libération) con la storia lesbica di “La vie d’Adèle” (La vita di Adèle), adattamento cinematografico del romanzo grafico di Julie Maroh “Le bleu est une couleur chaude” (Il blu è un colore caldo), già primo premio al festival internazionale del fumetto di Algeri  (Il grande colibrì), in India hanno passato il vaglio della censura e fatto molto clamore due baci, quello travolgente tra due uomini in “Ajeeb Dastaan Hain Yeh” (E’ una strana storia), episodio girato dal regista Karan Johar per il film antologico “Bombay Talkies” (I film sonori di Bombay), e quello scherzoso tra due donne in “Go Goa Gone”, di Raj Nidimoru e Krishna D.K. (The Indian Express).

Senza voler mancare di rispetto al cinema indiano, che proprio quest’anno festeggia il proprio centenario, e pur non allontanandoci per ora dall’India, è di un film proveniente dal confinante e generalmente poco amato Pakistan  che vorremmo parlare: “Chuppan Chupai” (Nascondino), di Sadat Munir e Saad Khan, è stato premiato come miglior documentario al Kashish, il festival internazionale di cinema queer di Mumbai (l’ex Bombay). Il lungometraggio racconta le vicende di quattro hijra, il termine con cui in Pakistan (e in tutto il subcontinente indiano) si designano le appartenenti al “terzo sesso” (così descrivono la propria identità quelle persone che in Occidente si definirebbero invece come transgender MtF).

Il film mostra molto bene e senza reticenze la condizione di queste donne, ricca di contrasti, di ombre e di luci, come ha raccontato più volte anche Il grande colibrì: da una parte le hijra subiscono violenze e discriminazioni e spesso sono costrette a vivere di elemosina o di prostituzione, dall’altra si sono organizzate in un movimento molto determinato che negli ultimi mesi è riuscito ad ottenere enormi risultati, permettendo al “terzo sesso” di conquistare riconoscimento pubblico e diritti politici, civili e sociali. Grazie al forte sostegno della Corte suprema e di importanti forze politiche e sociali, ma anche e forse soprattutto alla grande visibilità ottenuta in televisione da alcune artiste e presentatrici, il futuro delle nuove generazioni di hijra promette di essere molto meno duro rispetto al passato.

Se le transgender sono sempre più presenti sui canali pakistani, è invece molto più nascosto il tema dei diversi orientamenti sessuali: l’omosessualità e la bisessualità sono ancora tabù difficili da infrangere in televisione. Per questo “Taan”, un telefilm musicale che verrà trasmesso a partire dal prossimo autunno, promette di fare molto scalpore: ambientata in un conservatorio di Lahore, la metropoli indicata come la città più liberale del paese, la serie tv ha come protagonisti non solo un talebano innamorato di una cristiana, ma anche e soprattutto una coppia gay. Per i due omosessuali non sono previste scene di baci, coccole o abbracci, al massimo danzeranno insieme, come spiega il regista Saadat Munir: “Non sono autorizzati a mostrare il loro legame fisico” (Rappler). Il passo avanti sarà comunque notevole.

Le speranze per la comunità LGBTQ* pakistana, insomma, sono forti e non sono campate in aria, anche se il paese rimane profondamente conservatore, soprattutto nelle aree rurali e montane, e la strada da percorrere rimane lunghissima. Per questo Qasim, un omosessuale di 41 anni di Lahore intervistato dall’AFP poche settimane fa, sembra un po’ troppo ottimista. Nato in Pakistan ma cresciuto in America, ha abbandonato gli Stati Uniti  quando gli è stata negata la cittadinanza in quanto HIV-positivo; tornato in patria, ha scoperto un paese dove nessuno parla pubblicamente di omosessualità, ma dove comunque si è sviluppata una vivace comunità gay underground.

In modo probabilmente provocatorio, Qasim sostiene che “in realtà è più facile essere gay in Pakistan che negli Stati Uniti. Qui possiamo tenerci per mano, possiamo tranquillamente stare seduti mano nella mano: nessuno fa attenzione a queste cose in Pakistan“. Peccato che Qasim non potrà realizzare in Pakistan il suo sogno, cioè sposare il suo ragazzo, con il quale convive, e adottare una bambina. Per farlo dovrà andare all’estero. Proprio come hanno fatto due ragazze pakistane, Rehana Kausar e Sobia Kamar, che si sono conosciute e innamorate frequentando l’università a Birmingham, nel Regno Unito , si sono unite civilmente a Leeds e subito dopo hanno chiesto asilo politico (Birmingham Mail).

Ancor prima delle “quasi-nozze”, le due ragazze avevano ricevuto minacce di morte. Rehana commenta amaramente: “Il problema del Pakistan è che tutti credono di essere responsabili delle vite altrui e di poter decidere al meglio sugli altrui principi morali“. La donna se la prende con i leader religiosi islamici (“Ci troviamo in questa situazione per colpa loro: hanno dirottato la nostra società, che un tempo era tollerante e rispettava le libertà individuali“), ma continua a professarsi convintamente musulmana, tanto da aver cercato un imam per celebrare delle nozze religiose, come già successo in Inghilterra (Il grande colibrì). Per Rehana e Sobia, in ogni caso, è molto più facile essere lesbiche in Europa che in Pakistan…

 

Pier
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