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Storia di un detenuto
I parte: Il giorno del mio arresto
VII parte: Amore, dimmi bugie

Ormai qui dentro mi conoscono tutti e mi chiamano el-kateb (lo scrivano) della sezione 1D. Praticamente sono una delle dieci persone che sanno scrivere in tutte e due le lingue: l’araba e quella italiana, nonostante abbia una scarsa conoscenza di quest’ultima. All’inizio lo facevo per soldi, a chi voleva spedire alla fidanzata, moglie, avvocato o ad un’associazione chiedevo le sigarette o pacchetti di cartine. Ma poi ho visto la sofferenza di tutti perché, tranne chi lavora o in cucina o in sezione, il 90% dei 74 detenuti della nostra sezione non ha nessuno fuori, entrano in carcere e ne escono con gli stessi vestiti… Comunque, sono riuscito a guadagnare il rispetto degli anziani del braccio. Mi sa che, dopo tutto, studiare serve!

(dal diario)

Incominciare a frequentare alcuni della sezione dove ero mi ha decisamente fatto ridimensionare me stesso e le mie idee sulla realtà delle persone con cui stavo. Ogni giorno venivo invitato in una cella all’ora di socialità, ciò mi permetteva di conoscere i ragazzi uno per uno, ascoltando le loro storie e scrivendo nero su bianco ciò che si portavano dentro il cuore. Tranne pochi che mi hanno raccontato di cose orribili che hanno fatto, la maggioranza delle persone del nostro braccio, al contrario di quel che credevo, non erano innati prigionieri, e ciascuno di loro custodiva una vita di sofferenze e costrizioni che li ha condotti a fare ciò che solitamente si giudica, nei tribunali, sbagliato.

Iniziai a vedere i detenuti da una prospettiva diversa, con ogni parola scrivevo, con ogni pausa facevo, ascoltando, raccontare quello che si pensava. Col passar dei giorni, il mio giudizio mutava in compassione, comprensione e a volte condivisione.

Mi ricordo quel ragazzo marocchino di 23 anni, nero di pelle, dagli occhi neri, muscoloso e assai timido. Stava già dentro da più di un anno quando ero arrivato. Mi descriveva quella notte in pieno inverno, in un parco nella periferia bolognese, dentro quella baracca che aveva costruito con pezzi di metallo, rami, cartone e pezzi ricavati da un armadio trovato in una scarica non distante. Pioveva tanto. Si era messo tre pantaloni uno sull’altro e tutte le maglie che aveva, ma il freddo e il gelo continuavano a penetrare dentro la baracca fragile. Non potendo dormire, rischiando di addormentarsi per sempre congelato, accese un fuoco in quello strettissimo posto.

Mi disse che non era la pioggia a infastidirlo, anzi, era il silenzio che si faceva sentire quando smetteva di piovere per pochi minuti prima di riprendere, quel silenzio lo tormentava perché gli permetteva di sentire le gocce che cadevano dagli alberi, una per una, sui pezzi metallici. Quel rumore, mi disse, lo confondeva, provocando le sue paure – di essere derubato da sconosciuti in piena notte o addirittura arrestato perché clandestino… Ma quando riprendeva a piovere egli si addormentava perché sa che sotto la pioggia, in un parco in periferia, di notte, non ci gira quasi mai nessuno.

In piena notte il ragazzo si svegliò con i polmoni colmi di fumo, che per un attimo credeva di morire, e nella lotta per respirare colpì il lato della capanna che cadde in pezzi. Essendosi messo tutti i suoi vestiti addosso, nel cercar di ricostruire il suo riparo, si era bagnato. La storia finì con lui che piangeva e urlava i nomi del suo paese, papà, mamma, fratelli, parenti ed amici… gridava i loro nomi perché, se fosse rimasto a casa sua, non avrebbe subito quest’umiliazione.

In Italia, fino a poco tempo fa, per gli extracomunitari non avere un documento valido rilasciato dalle questure competenti significava scontare una pena di più o meno otto mesi per Clandestinità. Per tutti quelli che ho conosciuto nella sezione 1D, il governo non ha dato una mano, nemmeno al livello integrativo.

Il mio compagno di cella, Hamid, agli inizi degli anni Duemila, era riuscito ad ottenere un permesso di soggiorno di due anni, non so come ma ce l’aveva. Dopo aver girato un centinaio di locali in cerca di un lavoretto, tornava ogni sera in quella casa abbandonata situata su via Emilia Levante, dove condivideva la stanza con altri nordafricani. Hamid, perché non si poteva fidare della gente con cui “abitava” per paura che usassero il suo permesso di soggiorno falsificando i dati, lo aveva nascosto sotto terra, nel giardino di un palazzo in quella zona, pensando che una volta trovato un lavoro l’avrebbe potuto recuperare.

Passarono mesi e stagioni prima che lui trovasse un lavoretto come giardiniere e ritornasse sul posto dove trovò il permesso rovinato dall’umidità del terreno. Mi raccontò che, andando in questura per rinnovarlo prima che qualcun altro potesse rubargli l’impiego, lo fecero aspettare ben 6 mesi, il tempo che ci voleva per perdere l’occasione di mettersi in regola e poter sopravvivere.

Ricordo il tunisino della cella accanto, aveva sui quarant’anni, magro e barbuto. Mi disse che era stato arrestato non per un furto né per droga e nemmeno per una rissa. Stava tornando a Bologna da Altedo dove aveva trascorso il fine settimana con amici suoi. Prendendo l’autobus extraurbano si trovò davanti a tre controllori. Gli chiesero il biglietto ma non ce l’aveva, forse perché non aveva i due euro per pagarlo o magari perché pensava, giustamente, che, non avendo nessun diritto in Italia, non poteva avere nessun dovere come l’acquisto del biglietto del pullman. Mi disse che alla fermata si trovò due poliziotti che da lì lo portarono in questura per identificarlo, ed essendo clandestino fu messo in prigione a scontare ben otto mesi di pena. Otto mesi di reclusione solamente perché era senza un permesso di soggiorno.

Prima che accadesse tutto quello che m’è successo, avevo le mie idee sulla clandestinità e l’immigrazione. Ero fermamente contrariato all’idea di stare clandestinamente in un paese che non riconosce e non rispetta i diritti di chi non porta un documento. Mi risultava insensato scegliere di abbandonare il proprio paese e la propria famiglia per poi buttarsi ciecamente sul primo impiego che si riesce a trovare, anche fare le pulizie o fare da badante per 12 ore al giorno, invece di lottare per la patria che ci cresce e ci accoglie, perché la patria siamo noi, io e quell’altro. L’abbandono del proprio paese per guadagnare un po’ più di denaro mi sembrava assurdo. Non riuscivo a capire il senso di voler emigrare verso un paese di cui si sa poco, mollando tutto e tutti e rischiando di non tornare più, o semplicemente perdersi i momenti felici della propria famiglia…

Dopo che molti ebbero condiviso le loro esperienze e storie con me, capii che la mia visione era talmente stretta e superficiale che mi ero chiuso mentalmente senza rendermene conto, credendo di essere superiore, fino al giorno in cui ho scoperto che tutto quello che credevo e dicevo fosse sbagliato l’avevo fatto, l’avevo fatto tutto.

Il giorno del mio compleanno, mi resi conto che ero molto meno del peggiore tra loro, capii che il bisogno e la fame demoliscono le pietre, figuriamoci gli uomini. Capii che quando avevo avuto la possibilità di tornarmene dai miei, invece di Bologna avrei potuto scegliere il mio paese, dove avrei potuto lavorare onestamente, avrei potuto vedere le facce dei miei cari tutti i giorni. Invece scelsi di rimanere comunque per un motivo: la vergogna. Questo sentimento traditore è peggio del senso di colpa perché mi ha condotto a fare scelte sbagliate pur di non tornare a casa a mani vuote, senza un diploma né i soldi. Questa emozione detta vergogna, che risiedeva dentro di me, forse in tutti noi della sezione 1D, alimentava i miei sensi di colpa e cominciai a riflettere su quello che davvero mi meritavo.

Amore mio, vuoi sapere cosa ho fatto ieri nel giorno del mio compleanno? Mi sono svegliato alle nove, mi sono rasato la barba che non toccavo ormai da un mese e mezzo, ho pulito la cella e lavato i panni  aspettando che tu arrivassi, anche se la tua presenza sarebbe stata tramite lettera, comunque ho voluto ospitarti come se fossi fisicamente qui. Alle ore 13 eri arrivato, anzi, eravate arrivati in due lettere, in una c’eri tu e nella cartolina blu con la torta disegnata sopra c’erano tutti i nostri amici che l’hanno firmata… Mi sono sforzato a non emozionarmi ma non ce l’ho fatta. Sotto la doccia e tra il rumore dell’acqua, la televisione e la gente che parlava, ho singhiozzato per qualche secondo ma subito dopo ho spento tutto per non provare più nulla…
Come regalo di compleanno ho assistito alla prima interessante discussione tra i miei coinquilini. Guardavamo il programma di Barbara D’Urso che parlava di omosessualità. Ad un certo punto Hocine ha chiesto a Hamid cosa ne pensava dell’argomento, e lui ha risposto: mi fanno schifo tutti i froci. Dopo un silenzio di appena qualche minuto, continuando ad ascoltare attentamente il dibattito tra gli invitati della trasmissione, Hocine ha confessato di aver “sbagliato” una volta mentre era ubriaco, con una trans. Hamid disse subito che quand’era in Spagna, qualche anno fa, sulla spiaggia, ha scopato un uomo, ma anche lui era ubriaco. Replicò Hocine svelando la storia di quella “occasione” in cui era stato invitato a casa di un tipo che in cambio di una doccia e una notte calda doveva farci sesso ed egli accettò. Hamid invece, un’altra volta, l’aveva fatto per soldi, ma in generale, anche con le donne, preferisce il sesso anale… Comunque, ciccio mio stai tranquillo che non farò mai sesso con nessuno, ricordati che chi fa il frocio una volta, qui in carcere, lo rimarrà per sempre.

(dal diario)
 Anche se con il passar del tempo, i miei desideri sessuali aumentavano e sapevo che prima o poi avrei ceduto, l’unico motivo per cui non l’avevo ancora fatto era perché non avevo ancora incontrato quello giusto e non sapevo che l’avrei incontrato presto.

Azhar
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CONTINUA…

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