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Una donna può portare avanti una gravidanza per conto di altre persone, a cui consegnerà il neonato dopo il parto: si parla in questi casi di “gestazione per altri” o “surrogazione di maternità”, anche se l’espressione impropria di “utero in affitto” è quella più usata. La gestazione per altri può essere un atto altruistico con cui una donna permette a una coppia eterosessuale sterile o a una coppia gay di avere un figlio. Può essere del tutto gratuita o prevedere un rimborso per la persona fecondata. Può anche essere un’attività puramente commerciale, a scopo di lucro. E anche in quest’ultimo caso ci possono essere grandi differenze, per esempio nel rispetto delle persone coinvolte o nello sfruttamento di condizioni di debolezza.

Quest’ultime differenze si riflettono anche nei prezzi per la clientela, almeno in parte: ottenere un bambino tramite gestazione per altri può costare dagli 80 ai 140mila euro negli Stati Uniti, ma alcune agenzie specializzate offrono prezzi molto più bassi (dai 25 ai 50mila euro) in paesi meno ricchi. Insomma, anche l’industria della surrogazione di maternità commerciale (che comunque, come è importante ricordare, rappresenta solo una parte del fenomeno) ha il suo settore low-cost.

È un settore molto florido, ma che continua a cambiare il proprio principale paese di residenza: ogni volta esplode qualche grosso scandalo (come quello delle madri surrogate nepalesi abbandonate a loro stesse: Il Grande Colibrì), vengono introdotti divieti o restrizioni e l’industria si delocalizza verso stati più “competitivi”.

Così l’India ha ceduto il posto al Nepal, il Nepal alla Thailandia, la Thailandia alla Cambogia. Quest’ultimo paese dell’Asia sud-orientale era diventato negli ultimi tempi il paradiso delle agenzie che si occupano di gestazione per altri, attraendo soprattutto le coppie eterosessuali asiatiche e australiane e quelle omosessuali occidentali (che non possono rivolgersi al mercato low-cost concorrente delle cliniche ucraine per un esplicito divieto introdotto dal governo di Kiev).

L’espansione del settore in Cambogia è stata così forte e rapida da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e suscitare varie inquietudini. Ad agosto il Ministero degli affari femminili ha iniziato a interrogarsi sul fenomeno, aprendo un confronto con le forze politiche e gli esperti sanitari. E l’11 ottobre Chin Malin, portavoce del ministro della giustizia Ang Vong Vathana, ha annunciato l’intenzione di regolamentare il fenomeno con una legge, dopo le sollecitazioni di numerose organizzazioni per i diritti umani.

Ora il ministro della salute, Mam Bunheng, ha deciso che la surrogazione di maternità, come anche la “donazione” di sperma a fini commerciali, sarà temporaneamente sospesa, in attesa che il governo regolamenti la pratica [The Cambodia Daily]. I dettagli del provvedimento non sono ancora chiari e non si sa che fine faranno le donne fecondate artificialmente per conto di persone sconosciute.

Sam Everingham, direttore del gruppo di pressione australiano Families Through Surrogacy (Famiglie tramite la surrogazione), giudica la decisione cambogiana frettolosa e irrazionale: “Sono preoccupato perché questo divieto è stato introdotto senza nessuna indagine ragionevole delle autorità cambogiane sull’industria locale, soprattutto sulle conseguenze per le madri surrogate”.

Everingham ha più volte difeso il settore locale della gestazione per altri a scopo di lucro: per esempio, aveva assicurato al Phnom Penh Post che le donne cambogiane erano trattate molto bene e che i loro salari erano alti e in aumento, anche se ammetteva che in realtà la situazione era difficile da giudicare.

Intanto le agenzie rassicuravano i propri clienti: certo, la surrogazione di maternità in Cambogia era possibile solamente grazie a un vuoto legislativo e questo significava che le donne e i bambini non avevano nessuna garanzia, ma in fondo, come scrive Sensible Surrogacy, un’azienda di Las Vegas molto attenta alla clientela gay, “questo piccolo paese pittoresco […] è anche una destinazione turistica economica, con molti siti religiosi, feste e cibi esotici”.

Anche Preeti Bista, manager che dirige My Fertility Angel (Il mio angelo della fertilità), tagliava corto col Guardian: non facciamo altro che aiutare le coppie ad avere figli, cioè “la cosa più bella del mondo”. Definizione che, invece, forse è poco adatta allo sfruttamento della povertà delle madri surrogate, accusa per cui Bista era fuggita dal Nepal e aveva trapiantato le proprie attività in Cambogia.

Perché dietro alle promesse delle agenzie non tutto va nel modo migliore: non solo i 9mila euro promessi alle madri nelle interviste ai giornali diventano in realtà circa 7mila, ma soprattutto le donne, già in condizione di debolezza perché povere o fortemente indebitate, sono trattate molto diversamente da quanto strombazzato sui siti. A parte gli esami clinici periodici per controllare che il “processo di produzione” non abbia problemi, le madri sono abbandonate a loro stesse, senza nessun supporto psicologico e legale e con scarse informazioni sul contratto che hanno firmato. Inoltre, i contatti con i futuri genitori del nascituro sono completamente assenti.

Ma facciamo un passo indietro: gran parte degli operatori sono già fuggiti dalla Cambogia, trasferendo le proprie attività in Vietnam e nel Laos, non appena sono iniziate a circolare voci sulle intenzioni del governo di porre qualche regola al mercato, come per esempio ha ammesso senza problemi Mariam Kukunashvili del New Life Global Network (Rete globale della nuova vita). Insomma, se gli indizi sulla spregiudicatezza etica di questa industria erano già abbondanti, la fuga di fronte alla semplice ipotesi di una regolamentazione è suonata come una spudorata ammissione di colpevolezza.

D’altra parte, per Patricia Fronek, docente della Griffith University di Brisbane, in Australia, ed esperta di gestazione per altri, tutto il mercato della surrogazione di maternità commerciale non funziona: “L’intera industria manca di trasparenza: non sappiamo se succede qualcosa di nefasto e questo è il problema della mancanza di regolamentazione. Ma non appena si regolamenta, l’industria si sposta in un ambiente meno trasparente”. Perché, in altre parole, più trasparenza significa più diritti per le madri surrogate, quindi più costi e meno guadagni.

Insomma, accanto alla gestazione per altri seria e rispettosa di tutte le persone coinvolte, esiste anche un settore commerciale eticamente spaventoso: è un’industria che considera i bambini come prodotti da sfornare con il massimo risparmio possibile e la dignità e la sicurezza delle madri come costi da abbattere. Per questo agenzie e cliniche fuggono di fronte alla semplice idea di regolamentare il mercato. E per questo chi difende la gestazione per altri seria e rispettosa dovrebbe essere in prima linea nel denunciare questi abusi.

 

Pier
©2016 Il Grande Colibrì

One Comment

  • Gianuario Cioffi ha detto:

    Secondo me bisognerebbe legalizzarla in Italia con una legislazione uguale a quella canades/greca/austriaca/britannica; una volta fatto questo, il nostro Paese dovrebbe emanare un decreto attuativo per regolamentare il riconoscimento di quella praticata all’estero, distinguendo Paesi con standard più accettabili (Nordamerica e Paesi UE) e quelli con standard meno accettabili( SudEstAsia), facendo accordi con i governi dei secondi affinché si vieti alle coppie italiane di ricorrervi, almeno fino a quando una commissione del Ministero degli Esteri non reputi che le pratiche lì svolte siano diventate accettabili dal nostro punto di vista.

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