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Ho deciso di trasformare in urlo e in segno indelebile il mio corpo di uomo che ama un altro uomo, di gridare tutto ciò che la Chiesa non vuole vedere. Il mio corpo sarà la penna, si consumerà scrivendo la mia parola che nessuno potrà cancellare, il mio inchiostro sarà la benzina.

Sono passati 19 anni dall’automartirio di Alfredo Ormando, che ebbe luogo il 13 gennaio del 1998. Alfredo Ormando, omosessuale e cattolico, era nato e cresciuto in Sicilia, da genitori analfabeti. La sua non fu una vita semplice, ma non fu nemmeno quella di un pazzo. Aveva un sogno Alfredo, quello di diventare uno scrittore. Ormando si diede fuoco, davanti a piazza San Pietro, per denunciare le persecuzioni e le discriminazioni verso gli omosessuali che lo stesso Alfredo subiva.

In quella fredda mattina Ormando avrebbe posto fine alla sua vita in modo tragico. Aveva ustioni sul 90 per cento del corpo e morì dopo 11 giorni di agonia all’ospedale romano di Sant’Eugenio. Subito, il portavoce del Vaticano, Ciro Benedettini, negò l’esistenza di qualsiasi filo conduttore tra l’omosessualità di Ormando e il luogo che quest’ultimo aveva scelto, piazza San Pietro.

Le ragioni del suo gesto le aveva scritte in due lettere, una l’aveva con sé e l’altra l’aveva inviata all’ANSA di Palermo, prevedendo forse un possibile sabotaggio del suo gesto, che poi avvenne. “Le gerarchie cattoliche arriveranno a dire che mi tolgo la vita per malattia, o debolezza, e non per urlare loro l’ingiustizia che infliggono agli omosessuali in questo Paese. Ed è per questo che nel mio giubbotto, che ho poggiato per terra, sui lastroni calpestati da migliaia di fedeli, ho lasciato una lettera di denuncia. Almeno le parole di un morto, di un martire, le leggeranno. Bisogna ammazzarsi per farsi sentire”.

Ormando, era conscio del significato che il suo gesto avrebbe assunto e infatti, la scelta del luogo, San Pietro, il simbolo della cristianità, fu ben studiata. “Se mi fossi ammazzato in Sicilia non mi avrebbero ascoltato. E sono dovuto partire. Io mi sto trasformando nel mio assassino, qui dinanzi agli occhi innocenti di Gesù che amo. Sono dietro a un vetro, il 90 per cento della pelle è ustionata, le telecamere dei tiggì mi inquadrano. Lo so, non mi salverò. Il mio corpo è la mia parola. Finalmente ascoltata”.

Solo qualche giorno prima di quel 13 gennaio 1998, Ormando scriveva a un suo amico: “Spero che capiranno il messaggio che voglio dare: è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia”.

 

Anes
©2017 Il Grande Colibrì

 

Il testo che segue è un bellissimo intervento della scrittrice, giornalista e attivista Delia Vaccarello, che scrisse proprio in ricordo di Alfredo Ormando per L’Unità’ del 13 gennaio 2004.

IO TORCIA UMANA LANCIATA CONTRO IL VATICANO

Ho passato buona parte dei miei quarant’anni, sperando che le mie parole pubblicate in un’opera potessero uscire dai confini della mia isola, la Sicilia. Non è stato possibile, inesorabili i rifiuti delle case editrici, dalle più grandi alle minori. Allora ho deciso di farmi parola io stesso. Ho deciso di trasformare in urlo e in segno indelebile il mio corpo di uomo che ama un altro uomo, di gridare tutto ciò che la Chiesa non vuole vedere. Il mio corpo sarà la penna, si consumerà scrivendo la mia parola che nessuno potrà cancellare, il mio inchiostro sarà la benzina.

Sono, partito da Palermo ieri sera in treno. Un viaggio interminabile per arrivare qui, sotto l’imponente colonnato in questa rigida mattina. Oggi è il 13 del mio ultimo gennaio, del mio ultimo anno, il 1998. Ho comperato la benzina presso un distributore automatico vicino San Pietro. Ho nascosto la tanica in una borsa nera.

Ma ora, prima di darmi fuoco, sento i ricordi che non vogliono lasciarmi e li accolgo nel grembo della mia mente che per me è ospitale come il grembo di donna ed è l’unico luogo di libertà che io abbia mai conosciuto. La mia consolazione è stata nelle mie fedi, ho sempre creduto, come ho scritto in un aforisma che “anche una mente superiore, se ha umili origini, può dimorare nel più infelice e reietto degli uomini”.

Mi chiamo Alfredo Ormando sono nato a San Cataldo, un paesino in provincia di Caltanissetta, il 15 dicembre del 1958. Mio padre e mia madre erano analfabeti, hanno lavorato nei campi e poi sono diventati operai. Ho sette fratelli, le nostre condizioni economiche sono state modeste, quando non disagiate. Io non sono riuscito a frequentare la scuola regolarmente e ho preso la licenza media a venti anni, come privatista. La maturità magistrale cinque anni fa. Mi sento un anticonformista e sento intorno a me, come ho scritto a un amico, il mondo ostile, armato verso coloro che hanno “dentro di sé quel qualcosa in più che va a cozzare contro la grettezza, i pregiudizi , l’invidia e il provincialismo della propria gente”.

Alla ricerca di me stesso e di un luogo accogliente mi sono abbandonato anche a una crisi mistica di cui ho parlato nel romanzo “Il Fratacchione” nel quale descrivo il silenzio della mia vita conventuale. L’ho pubblicato a mie spese un anno fa, aiutato anche dalla mamma che ormai ha più di 80 anni e vive di una piccola pensione sociale.

Ma noi siamo di origini contadine e non buttiamo niente. Ogni cosa può nutrirci fino a quando la vita ha un senso. Poi buttiamo la vita tutta intera. Come sto per fare io, qui davanti a questo presepe anacronistico, che a San Pietro non viene smantellato subito dopo la Befana. Io sto per darmi fuoco guardando il bambinello. E mentre loro prolungano il Natale, io anticipo la Pasqua, e mostro che vogliono il sangue, che vogliono la morte.

Mi farò torcia umana e scriverò parole che non potranno essere ignorate. Visto che hanno messo Cristo in croce capiranno che cos’è il sacrificio e almeno dentro di loro l’eco delle mie parole procurerà un sussulto. Come ora, dentro di me, torna l’eco di ciò che ho scritto al mio amico: “Penseranno che sia un pazzo perché ho deciso piazza san Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo. Spero che capiranno il messaggio che voglio dare: è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la Natura, perché l’omosessualità è sua figlia”.

Ho vissuto sulla mia pelle il razzismo nei confronti delle emozioni, quello che vede il pregiudizio stanarti oltre ogni confine possibile e nutrirsi di te fino ad annientarti. Le mie parole, anche quelle scritte nei libri, ritornano ora con forza, come i ricordi. L’umiliazione l’ho descritta in “Sotto il cielo d’Urano”: “Ho sperimentato in prima persona cosa significhi salire e scendere le scale altrui, sentirsi un ‘marocchino’ nel proprio Paese… vivere all’ombra di mia madre, essere umiliato, vilipeso, osteggiato, emarginato e porre fine ai miei giorni con il suicidio”. Adesso basta, la società mi ha suicidato, prima che lo facessi io. Almeno mi prendo la libertà, l’unica che mi hanno lasciato, di compiere il gesto finale.

Mi tolgo il giubbotto, anche se fa freddo, tra pochi secondi morirò di fuoco, un fuoco catartico e visibile, che mi avvolgerà azzannandomi la pelle. Eppure la mia mano esita, “ma perché devo vivere? Non trovo una sola ragione perché io debba continuare questo supplizio… Nell’aldilà a nessuno farò drizzare i capelli e arricciare il nasino perché sono un omosessuale… Non capisco questo accanimento contro dì me. Non svio nessuno dalla retta via dell’eterosessualità, chi viene a letto con me è maturo, cioè adulto consenziente e omosessuale o bisessuale. A volte basta davvero poco per essere felici e altrettanto poco per essere infelici.

Per me il discorso è diverso: è da quando avevo dieci anni che vivo nel pregiudizio e nell’emarginazione; ormai non riesco più ad accettarlo, la misura è piena”. Le gerarchie cattoliche arriveranno a dire che mi tolgo la vita per malattia, o debolezza, e non per urlare loro l’ingiustizia che infliggono agli omosessuali in questo Paese. Ed è per questo che nel mio giubbotto, che ho poggiato per terra, sui lastroni calpestati da migliaia di fedeli, ho lasciato una lettera di denuncia. Almeno le parole di un morto, di un martire, le leggeranno. Bisogna ammazzarsi per farsi sentire.

Ma se mi fossi ammazzato in Sicilia non mi avrebbero ascoltato. E sono dovuto partire. Non tornerò più nella mia Palermo che è stata prima come una metropoli rispetto a San Cataldo e poi, comunque, luogo di dolore. Ho lasciato per sempre la palazzina di via delle Magnolie, le strade alberate piene di profumi a primavera, la casa dove ho vissuto con un uomo pensionato, dando una mano in cambio di un aiuto per poter acquistare i libri e frequentare l’università. Non entrerò più nella facoltà di Lettere e Filosofia. Avere una laurea, ormai non fa più differenza. Magari me la daranno dopo, da morto.

Avrebbe fatto la differenza avere degli amici veri, trovare anche nel movimento omosessuale legami profondi, ma così non è stato. Fino a pochi giorni fa, il due gennaio, ho scritto da Palermo a un amico di Reggio Emilia: “Se avessi avuto un paio di amici come te qui, avrei accettato di buon grado la mia vita”. Ma l’amicizia vera è un bene inestimabile che non ho avuto. Il Sud con me è stato avaro.

L’amarezza è stata il mio rifugio. Amari gli aforismi: “A tradire sono sempre gli amici più intimi e i parenti più stretti”. Perché? Solo a loro concediamo la possibilità di tradirci. Incantati, invece, sono stati i desideri irrealizzabili che ha espresso il mio immaginario. È di pochi mesi fa il mio racconto “Il sogno di Paolo”, dove Paolo si scopre donna e vive un amore di una completezza irreale, tanto intenso quanto solo da sognare. Poi si sveglia indubbiamente uomo. Ho lavorato, studiato, scritto, fino all’estenuazione. Sembrava che nulla potesse vincermi. Mi ha sconfitto la malvagità. Quando ho scritto: “Nessuno è più malvagio di chi spinge un uomo buono ad essere il suo assassino”, ho capito che era arrivata la mia ora.

Io mi sto trasformando nel mio assassino, qui dinanzi agli occhi innocenti di Gesù che amo. Dinanzi alle gerarchie ecclesiastiche che odiano gli omosessuali. Prendo la tanica, mi inzuppo la maglia e i pantaloni. Stringo nella mano destra un accendino.

Basta azionarlo una, due volte… il fuoco divampa, è come i falò sulla sabbia a due passi dal mare, la fiamma è rovente, vicinissima, vicinissimo è l’infinito, ma ora a divampare sono io, è terribile, sono una torcia umana, corro, mi inarco per il dolore che mi fa impazzire, sono pazzo ma mi sento vivo almeno per qualche istante, vado verso Gesù, il vento del mattino alimenta le fiamme, un passante grida, due uomini in divisa si gettano su di me, agitano le giacche contro la mia pelle che non c’è più, prendono un estintore… Mi soccorrono gli infermieri. “Non sono neanche riuscito a morire”. Per terra, sotto il colonnato, resta una striscia nera, sangue impastato a carbone e benzina.

Sono dietro a un vetro, il novanta per cento della pelle è ustionata, le telecamere dei tiggì mi inquadrano. Lo so, non mi salverò. Il mio corpo è la mia parola. Finalmente ascoltata.

[Il testo è una ricostruzione scritta in prima persona della vita di Alfredo Ormando fatta anche sulla base dei documenti messi a disposizione da Massimo Consoli e Piero Montana, che ringraziamo. È stato pensato nella convinzione che la scrittura può essere resurrezione]

One Comment

  • anima triste ha detto:

    Mi addolora sentire queste cose, ma purtroppo la nostra è una sofferenza eterna. Non resta che metterci una maschera e annullare noi stessi per vivere, annullare l’amore e tutto :'(

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