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Saleem Haddad è di una bellezza sconvolgente e lo è non soltanto per i suoi dolci lineamenti e per i suoi occhi blu come il mare, lo è perché è una persona autentica. Lo avvicino timidamente mentre aspetta che cominci il suo reading nell’ambito del Queer Festival presso il Karlstorbahnof di Heidelberg (Germania). È nato in Kuwait da madre irachena-tedesca, di famiglia musulmana, e padre palestinese cattolico. Ha vissuto in Giordania, dopo la scuola ha studiato in Canada e in Gran Bretagna, dove attualmente vive.

Saleem è dolce e caloroso: mi racconta di essere stato a Napoli nel 2009 e di aver presentato il libro in Italia l’anno scorso, dove sembra che le persone gli abbiano rivolto domande piuttosto strane. “In che senso?” gli chiedo. “Nel senso che sembrava che avessero un’idea molto precisa e abbastanza stereotipata del mondo arabo-islamico che con fatica ho dovuto decostruire”.

Entriamo in sala e dopo una breve presentazione da parte del ricercatore Daniel Cubelic , Saleem dà voce a immagini ed emozioni tratte dal romanzo “Ultimo giro al Guapa” (E/O 2016, 18€, 320 pp.). In particolare mi tocca l’immagine di Rasa che si guarda allo specchio sussurrando “Io sono gay” e mi rimanda indietro di sei anni, in quel novembre 2010, quando di fronte allo specchio del bagno della mia casa a Damasco per gioco mi avvolsi la testa in un pezzo di stoffa nero e sussurrai: “Sono musulmana”.

Le identità e le lingue che ci compongono

Da allora tutto è cambiato, mi sono state appiccicate addosso numerose etichette a seconda del posto in cui ero: in Siria ero una donna come le altre, particolarmente benedetta da Dio, in Italia una terrorista, una pazza, solo a volte una donna coraggiosa – e così anche per Saleem era diventato difficile trovare un termine per definirsi e in questo senso il romanzo è stato per lui una sorta di terapia, come se avesse condensato in un libro le sue diverse identità: palestinese, iracheno, cristiano vissuto in un contesto a maggioranza musulmana, inglese, eccetera.

Il protagonista di “Ultimo giro al Guapa” è non a caso un interprete, che bloccato in tanti mondi cerca di trovare un posto dove sentirsi a proprio agio. “Perché hai deciso di scrivere in inglese?” gli chiedo. “Forse risale ai tempi della scuola la mia passione per l’inglese. Per il sistema scolastico giordano bisognava memorizzare tanti testi, incluso il Corano, nell’ora di inglese invece era diverso, lì mi sentivo libero di esplorare la letteratura che leggevo. Forse però l’inglese ha creato anche una sorta di distanza di sicurezza dagli argomenti delicati trattati nel romanzo”.

Saleem si ferma e riflette su quanto la sua personalità cambi a seconda della lingua che parla, ammette che anche tra i suoi amici, quando si parla di sesso si cambia spesso dall’arabo all’inglese, forse per mancanza di termini specifici in arabo, forse perché si lega quella lingua ad un ambiente e una società dove alla sessualità sono legati tabù di vario tipo. Anche in questo mi sento di capirlo profondamente e penso alle mie diverse personalità e atteggiamenti quando parlo l’italiano, la lingua del mio cuore, l’inglese, la lingua del lavoro, il tedesco, la lingua della vita quotidiana, e l’arabo, la lingua che amo di più ma che fatico ad imparare come vorrei. Penso che anche io quando parlo arabo divento in un certo senso più timida.

Mettere insieme  ciò che appare in conflitto

Il libro per Saleem è stato dunque un modo per rispondere alle sue domande esistenziali e i personaggi rappresentano diverse parti di se stesso, che fino a poco prima combattevano l’una contro l’altra ma che ora hanno trovato pace grazie al processo di scrittura. Mi commuovo e penso al romanzo che ho scritto nel 2015, ma che ancora purtroppo non ha trovato la strada per la pubblicazione, anche per me una sorta di cura, un modo per mettere insieme diversi elementi apparentemente in conflitto.

Per un attimo sogno quel giorno in cui anche io sarò in giro per il mondo a presentarlo, poi ritorno alla realtà e mi chiedo se abbiamo veramente bisogno di tutte queste etichette per definirci, e se l’apparente contraddizione tra le varie parti di noi stessi non sia invece ciò che ci rende belli. Perché essere diversi dovrebbe creare conflitto? Quante differenze ci sono tra me e Saleem? Eppure riusciamo in quelle poche a creare una connessione profonda, perché evidentemente abbiamo bisogno di nient’altro che della nostra umanità.

Ancora una volta una parola mi suona familiare: “esilio”. Saleem, nel raccontare di come il libro è stato accolto nei vari paesi in cui lo ha presentato, narra di quanto i commenti del pubblico lo abbiano aiutato a riflettere: “Negli Stati Uniti ad esempio mi è stato chiesto se considerassi il Canada, la terra che mi ha accolto dopo la scuola, una sorta di luogo di esilio, dove potevo finalmente essere me stesso”. Gli confesso che anche io spesso penso alla Germania come una specie di esilio, uno spazio dove sento che il mio hijab (velo islamico) e la mia italianità trovano il loro posto.

Conciliare religione e omosessualità?

A questo punto mi viene da chiedere a Saleem: “So che sei cristiano, e immagino tu abbia molti amici musulmani: per entrambe le religioni l’omosessualità è considerata un peccato piuttosto grave. Dunque, come si conciliano le due cose? Secondo te è possibile?”. “Beh, io personalmente non ci sono riuscito, forse anche perché nella comunità cattolica di riferimento ho trovato molta ostilità e forse posso dire quasi più omofobia che tra i musulmani e quindi a un certo punto ho messo da parte la religione. Alcuni miei amici però sono riusciti perfettamente a conciliare le due cose e sì, si può essere cristiani e gay o musulmani e gay”.

Interviene a questo punto Daniel Cubelic, accennando agli sforzi di interpretazione delle fonti che si sono fatti in ambiente islamico per riconsiderare il peccato di omosessualità. Mi chiedo quanto questo sia rilevante, mi trovo d’accordo con Saleem quando dice ciò che haram resta haram, ma che il concetto di vergogna (in arabo ‘eb) è socialmente costruito e quindi negoziabile. L’Islam non cambia, ma i musulmani sì, o l’Islam può cambiare? Domande molto complesse a cui non troveremo facile risposta.

Infine si parla del ruolo che senza volerlo Saleem ha assunto per la comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) globale e del valore politico della sua opera: “L’idea del libro mi è venuta in Marocco, mentre guardavo alla TV un servizio per ricordare l’11 settembre 2001 e intanto le rivoluzioni scuotevano il mondo arabo. Stavamo vivendo un cambiamento epocale, ma non solo a livello collettivo, le rivoluzioni ci stavano cambiando dentro”. Saleem porta con sé un valore molto prezioso: invece del limbo ha scelto l’inferno in nome della libertà di essere se stessi, la più difficile da difendere.

Rosanna
Rosanna Sirignano è dottoranda in Studi islamici, musulmana e autrice di La mia Siria
©2017 Il Grande Colibrì

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