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La teoria di Lamarck aprì la strada all’evoluzione e diede agli scienziati un nuovo paradigma con cui interpretare il mondo. Nel frattempo molte scienze progredivano velocemente e tra queste la psichiatria [Il Grande Colibrì].

L’approccio alla malattia mentale dei primi anni del XIX secolo fu di tipo “fisico”. Si riteneva che la malattia fosse di origine organica (in sintonia col materialismo illuminista). La via chirurgica alla cura delle malattie mentali fu quindi presa in seria considerazione e applicata purtroppo con una certa leggerezza. Ci vollero pochi anni però perché questo approccio rivelasse la sua fallacia. Fu infatti chiaro, dalle autopsie di malati mentali, che il loro cervello non presentava, nella maggior parte dei casi, differenze con quello di persone sane.

La prima formulazione di un’ipotesi di tipo evoluzionista fu esposta da Bènèdict Augustin Morel nel suo “Traitè des dègènèrescences physiques, intèllectuelles et moralès de l’espèce humaine” [Wikipedia]. Si tratta della teoria della degenerazione secondo la quale la malattia mentale sarebbe una degenerazione dovuta al passaggio ereditario di un carattere acquisito del genitore. Così come il collo della giraffa di Lamarck si allunga per la somma di caratteri via via acquisiti, la malattia mentale aumenta di padre in figlio e porta, inevitabilmente, all’estinzione della stirpe. Per fare un esempio pratico, se un uomo è nervoso, il figlio sarà nevrotico e il nipote psicopatico.

Diverse potevano secondo Morel essere le cause della degenerazione: avvelenamento, ambiente sociale, temperamento patologico, una malattia morale, danni innati oppure acquisiti ed ereditarietà.

E qui vorrei aprire una piccola parentesi sul concetto stesso di “malattia mentale” così come veniva concepito all’epoca. Era ritenuto patologico un comportamento diverso dalla norma. Anche comportamenti immorali o ritenuti tali, o comportamenti semplicemente minoritari erano segno di malattia. Di base c’era ancora l’idea dell’esistenza di una norma, di un modello unico di “uomo sano” assoluto a cui si contrapponevano i “pazzi”. Basti vedere le cause della degenerazione. Due in particolare sono indicative di questo atteggiamento.

Il “temperamento patologico” infatti contiene in sé un giudizio morale, una contrapposizione del temperamento “non normale” delle persone al modello “normale” della società e della morale dell’epoca che assurgeva, nella scienza, a modello “naturale” e “sano”. La cosa era poi confermata, secondo la mentalità dell’epoca, dal fatto che l’Occidente fosse la civiltà più progredita da un punto di vista economico, tecnologico, scientifico, il che doveva derivare da una certa superiorità della razza bianca rispetto alle altre. Quest’idea, benché ormai smentita, continua a essere condivisa da gran parte degli occidentali.

Altra causa indicativa è la “malattia morale”. Anche qui si dà un giudizio. Per quanto “malattia morale” abbia un significato assai più ampio di “comportamento immorale” comprendendo anche la tendenza alla tristezza o alla malinconia e simili caratteristiche, il giudizio e l’influenza etnocentrica della società sono ben visibili. Anche comportamenti immorali come la sfrontatezza nelle donne potevano essere ritenuti infatti malati.

E quale miglior cosa dell’omosessualità si presta a simile definizione? Essa infatti è un comportamento (passatemi la definizione riduttiva e impropria) minoritario, immorale (per i canoni della morale cristiana europea) e che porta all’incapacità riproduttiva. Nell’atto omosessuale infatti la riproduzione non è possibile. Perché un omosessuale si riproduca è necessario che abbia rapporti eterosessuali. Questo fatto, in sé banale ed evidente, rafforzò molto l’idea che l’omosessualità fosse derivante da degenerazione. E come tale doveva essere “curata”.

Furono molti gli omosessuali a finire nei manicomi e i loro segni di nevrosi o i loro scatti d’ira e di violenza furono sempre visti come conferma dello stato patologico (sorte comune a chiunque finisse nei manicomi) senza considerare che chiunque, se trattato come venivano trattate le persone in questi luoghi (camicia di forza, cinghie di cuoio per legare al letto, prigionia forzata senza far nulla, punizioni corporali, sporcizia…), sarebbe impazzita.

La teoria delle degenerazione ebbe un ampio successo e fu condivisa da molti psichiatri per decenni. Fu alla fine del XIX secolo che l’osservazione accurata dei fenomeni e la raccolta di grandi quantità di dati sperimentali permisero di smentirla. Tra le altre cose si vide che non c’era nessuna evidenza riguardo l’ereditarietà di gran parte delle malattie mentali perché non si presentavano casi (se non tanto rari da poter essere ritenuti casuali) di permanenza di una certa malattia in più generazioni di una famiglia. Inoltre la scoperta delle leggi dell’ereditarietà da parte di Mendel mise chiarezza in un argomento fino allora nebuloso e smentì le idee dei teorici della degenerazione.

Anche il razzismo fu influenzato parecchio da questa teoria. Il primo a usare questo termine fu Arthur de Gobineau [Wikipedia] nel suo “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” nel 1853 (prima quindi di Morel) dove, con argomentazioni ridicole perfino per le conoscenze dell’epoca e con affermazioni in palese malafede, cercò di dimostrare la superiorità della razza bianca sulle altre. Gobineau non parla di individui, ma di popoli o, meglio, di razze. La degenerazione delle razze è causata, a suo parere, dal “meticciato” ovvero dalla mescolanza di sangue tra razze diverse che porta inevitabilmente alla degenerazione di quella superiore.

Lo scritto di Gobineau è intriso di ignoranza e di superficialità, si basa sul pregiudizio e adatta la storia (stravolgendola) alle sue idee e non il contrario come dovrebbe essere. Ciò nonostante si diffuse molto e influenzò in modo decisivo l’ideologia di certi pensatori dell’epoca. Queste idee furono rafforzate dalla teoria di Morel. Il fraintendimento di gente non competente in materia psichiatrica della teoria, unito alle assurdità del Gobineau, portò alla nascita di un’ideologia razzista sistematica e violenta che sfociò poi nel nazismo. Ancora oggi queste idee sono diffuse soprattutto tra le estreme destre e tra gruppi pseudo-esoterici che usano la parola “degenerazione” per concetti diversi facendo una confusione totale.

Concludo con un accenno alla teoria di Darwin. La pubblicazione del libro “L’origine delle specie” di Charles Darwin [Wikipedia] pose fine alla teoria di Lamarck e chiarì i meccanismi fondamentali dell’evoluzione. Lo scienziato inglese però non smentì del tutto la possibilità che i caratteri acquisiti potessero essere ereditati e mantenne il meccanismo dell’uso e del disuso come valido anche se secondario rispetto alla selezione naturale. La teoria della degenerazione trasse vantaggio da quella di Darwin. Se infatti Lamarck scricchiolava rendendo la base delle idee di Morel fragile, Darwin dà solidità all’evoluzione e permette quindi lo sviluppo delle teoria della degenerazione.

In realtà non possiamo attribuire a Charles Darwin nessuna responsabilità nella nascita delle idee omofobe e razziste sistematiche tipiche del tardo XIX e del XX secolo. Tutto ciò che passa sotto il nome di “darwinismo sociale” e che altro non è che l’applicazione dell’evoluzionismo alla società umana, nasce da una cattiva conoscenza e da una peggiore comprensione delle tesi darwiniane. Già in “L’origine delle specie” infatti ci sono tutti gli elementi necessari per smentire il razzismo e perfino l’omofobia (anche se dubito che Darwin ci avesse pensato). Ma questo sarà il contenuto del prossimo post. A presto!

Enrico
©2011 Il Grande Colibrì

Scienza, razzismo e omofobia: tutti gli articoli:

  1. Dalla nascita della scienza moderna all’Illumismo
  2. Le radici illumiste del razzismo e dell’omofobia
  3. La giraffa di Lamarck apre la strada all’evoluzionismo
  4. La teoria della degenerazione delle razze di Gobineau
  5. Razzismo e omofobia? Sciocchezze, parola di Darwin!
  6. La fisiognomica di Lombroso e l’eugenetica di Galton
  7. …e arrivò il nazismo, tra deliri scientifici ed esoterici

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