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I recenti successi della destra xenofoba, misogina e omofoba di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania; AfD) non sono solo un problema tedesco, ma fanno parte di processi politici e sociali che riguardano praticamente tutte le democrazie: i partiti “tradizionali” perdono consenso, mentre emergono leader che denunciano le élite e spesso puntano il dito contro chi è “diverso” per origini etniche, religione, orientamento sessuale o identità di genere.

Mentre sembrava scontato che il futuro sarebbe stato aperto e cosmopolita, ecco che invece i nazionalismi si rafforzano e manifestano con sempre meno freni la propria ostilità verso le persone straniere, migranti e rifugiate. Intanto, anche i fondamentalismi religiosi (da quelli islamici a quelli cristiani, senza dimenticare induisti, buddisti ed ebrei) dimostrano la propria vitalità, con la proposta di totalitarismi teocratici e pulizie etniche religiose, ma anche con l’esaltazione di presunte tradizioni in cui la religione è un simbolo identitario svuotato di ogni significato a parte la capacità di identificare “altre” e “altri” da respingere perché etnicamente o sessualmente estranei alla purezza di antenati mitologici.

Sono fenomeni tra loro anche molto diversi, ma che hanno due elementi in comune: da una parte la ricerca evidente di un nemico a cui attribuire ogni male, dall’altra la volontà di ribellarsi contro chi sembra reggere le sorti del mondo – le élite politiche ed economiche all’interno dei paesi occidentali, l’Occidente stesso nel resto del mondo. Questi due elementi hanno a loro volta una radice comune: una parte enorme della popolazione (tanto nelle singole nazioni quanto a livello globale) si sente non solo esclusa e abbandonata dal punto di vista economico, politico e/o culturale, ma anche derisa e disprezzata.

Da decenni le disuguaglianze economiche aumentano in quasi tutte le nazioni e, se nel 1965 un amministratore delegato guadagnava 20 volte più di un impiegato, nel 2012 questo rapporto era di 354 a 1 [Harvard Business School]. A livello globale, la ricchezza degli abitanti dei paesi più ricchi era superiore a quella degli abitanti dei paesi più poveri di 33 volte nel 1960 e di 134 volte nel 2000 [Groningen Growth and Development Centre]. Anche l’indice di Gini assoluto ci mostra come la disuguaglianza economica è cresciuta enormemente e costantemente (da 0,57 a 0,72) tra il 1988 e il 2005 [University of Oxford].

Eppure il neoliberismo, il modello economico oggi predominante, è presentato come una verità oggettiva, come un meccanismo naturale, come un processo salvifico che non può essere messo in discussione. Chi propone alternative o semplicemente esprime qualche dubbio è accusato di essere un pericoloso estremista o, se gli va bene, è trattato come un povero ingenuo. Fuori da questo modello c’è l’abisso, continuano a ripetere. Intanto, però, moltitudini di persone vivono nell’abisso proprio all’interno di questo modello.

Le persone comuni, sempre più escluse dalla ricchezza e ridotte alla precarietà lavorativa ed esistenziale, sentono di non poter più determinare il proprio futuro anche perché la politica è oggi ridotta a semplice gestione amministrativa di una realtà che non si vuole modificare. Tutte le decisioni politiche sulla nostra vita privata e collettiva (dall’economia ai diritti sociali, dalla sicurezza alla politica estera) non sono più discusse pubblicamente e democraticamente, ma sono ridotte a questioni tecniche e sono affidate a presunti esperti che impongono soluzioni presentate come inevitabili e senza alternative.

La discussione rimane libera solo su pochi temi etichettati arbitrariamente come “culturali” o “etici” (gli altri non lo sono?), come l’abbigliamento delle minoranze religiose, l’uso della cannabis, l’eutanasia o il riconoscimento delle coppie omosessuali. Solo su questi argomenti, pur importanti, il dibattito è davvero aperto e le forze politiche alimentano lo scontro ideologico, dal momento che sono rimasti gli unici fondamenti identitari di partiti dai programmi economici e sociali sostanzialmente simili. Non sorprende se questi temi diventano le arene in cui le cittadine e i cittadini, istigati da discorsi apertamente razzisti e omofobi sempre più sdoganati, sfogano istericamente le proprie frustrazioni e cercano capri espiatori.

Mentre avanza la marea di clown inquietanti come Donald Trump e Matteo Salvini, di partiti di estrema destra come il Front National francese e lo Jobbik ungherese, di leader mondiali autoritari come Putin in Russia, Erdogan in Turchia e Modi in India, uniti dalla retorica contro le minoranze etniche, religiose e sessuali, è sempre più urgente trovare soluzioni. Ma quali?

Negli ultimi mesi alcuni importanti editorialisti anglofoni ci hanno proposto una carrellata di interventi dai titoli eloquenti, come “E’ tempo che le élite si ribellino contro le masse ignoranti” (James Straub su Foreign Policy) o “Le democrazie finiscono quando sono troppo democratiche” (Andrew Sullivan su NYMag), per spiegarci che “oggi il nostro problema politico più urgente è che il paese ha abbandonato l’establishment”, per usare le parole di Jonathan Rauch su The Atlantic.

Il discorso di chi vuole difendere a tutti i costi lo status quo si basa su due punti. Il primo è la semplificazione allarmista secondo cui tutte le alternative al modello esistente sarebbero indistintamente pericolose e “cattive” – come se Donald Trump e Bernie Sanders, Syriza e Alba Dorata, Alternative für Deutschland e Die Linke fossero la stessa cosa. Il secondo è l’aperto disprezzo verso la presunta irrazionalità di chi non vuole più seguire queste élite – come se mantenere uno status quo di impoverimento, emarginazione, precarietà e frustrazione fosse davvero razionale.

D’altra parte, senza cadere nella retorica anti-democratica e nelle semplificazioni interessate di chi difende il modello economico e politico attuale senza se e senza ma, bisogna riconoscere che alcune alternative (o, meglio, pseudo-alternative) presentano rischi inquietanti e bisogna riflettere criticamente sulle nostre reazioni: troppo spesso,  nei nostri articoli, nelle frasi ad effetto sui social network, nelle battute ironiche e nelle vignette satiriche, ci limitiamo a esprimere il nostro disappunto o il nostro senso di sconcertata superiorità di fronte a quella che dipingiamo come una massa indistinta di rozzi, stupidi e retrogradi.

Ma le battute sdegnate sui leader omofobi e razzisti, o sull’ignoranza e miseria morale dei loro seguaci, non solo non cambiano la situazione, ma addirittura aumentano tanto il senso di emarginazione culturale di cui soffrono sempre più persone quanto la capacità di questi leader di apparire come l’occasione di riscossa contro una cultura che non le ascolta e anzi le censura e prende in giro.

Come movimenti per i diritti delle persone, e come movimento LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali) in particolare, dovremmo affrontare una strada difficile e spiacevole, ma forse utile a dare una nuova direzione a uno smottamento politico e culturale che rischia di travolgerci.

Senza negare l’importanza dei riconoscimenti ottenuti negli ultimi anni, bisogna riflettere anche su quello che è passato sotto silenzio, sui problemi taciuti, sulle strumentalizzazioni di cui siamo diventati ingranaggi. Puntando il dito contro l’omofobia di presunti invasori, i peggiori omofobi utilizzano e seducono le minoranze sessuali lanciandole contro le persone migranti. E al tempo stesso, puntando il dito contro presunte ideologie gender o “omosessualizzatrici”, i peggiori razzisti utilizzano e seducono le minoranze etniche lanciandole contro le persone LGBTQI. Il paradossale successo del Front National tra gli omosessuali francesi è una prova evidente [Il Grande Colibrì].

Bisogna poi riconoscere che la presenza di “rappresentanti” del movimento LGBTQI nei governi, nei parlamenti, nelle università e nei salotti televisivi troppo spesso non ha significato che abbiamo trasformato o “liberato” il potere che contestavamo, ma semplicemente che il potere ha assorbito la parte più “accettabile” della comunità e ha inglobato la parte meno “dirompente” delle nostre richieste per mostrarsi progressista e benevolo.

Dovremmo ricordarci come siamo nati e nate: come un movimento di rivoluzione e di contestazione dello status quo, con pretese particolari collocate però all’interno di una battaglia per l’uguaglianza più ampia. Limitarsi alle proprie battaglie, crogiolarsi nelle proprie conquiste e disinteressarsi alle altre ingiustizie che ci circondano significa tradire la nostra storia, ridurci a una sola dimensione, essere cattive cittadine e cattivi cittadini. Non dovremmo accettare di diventare la scusa per nessuno per non parlare di altro – di giustizia, di disuguaglianza, di un mondo radicalmente diverso.

Abbiamo il diritto di pretendere che la politica si occupi dei nostri diritti. Ma abbiamo anche il dovere di pretendere che la politica si occupi dei propri doveri.

Pier Cesare Notaro
©2016 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

2 Comments

  • Polimorfo ha detto:

    Sono completamente in accordo con questa tesi ed è la mia pure. Mi sento, però, impotente, impotente e disorientato al seggio elettorale, impotente in tutte le altre situazioni. Il televisore ha lasciato il posto al monitor e i dibattiti televisivi sono preistoria. Ho fatto parte del primo circolo Arci a Napoli e a Caserta. Adesso penso che sono strutture sterili dove vige il continuo litigio e poco arrosto. Cosa fare? Cosa dire,? Sono per natura “minoranza” e ho il dubbio di aver buttato la spugna. Sono l’unico disorientato?

  • Enrico Proserpio ha detto:

    Quel che serve è la democrazia. Quella vera, non quella “rappresentativa” che è solo una maschera del potere di un’élite. Solo con la vera uguaglianza e con la partecipazione di tutti alla politica si porranno fine a certi abomini come la miseria e le discriminazioni.

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