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Ragioniamo e sragioniamo insieme. In tutto il mondo le donne vittime di tratta per lo sfruttamento sessuale sono migliaia. Queste donne sono sempre costrette a indossare minigonne e altri capi di abbigliamento succinti che in quel contesto sono la rappresentazione visibile dello stato di schiavitù e sfruttamento in cui purtroppo sono. Per questo non è raro che donne che indossano la minigonna e abiti succinti vengano giudicate “prostitute”, termine dispregiativo, abusato senza la minima conoscenza di un fenomeno molto complesso e articolato.

Se da un lato a nessuna donna piace essere offesa per il modo in cui veste, dall’altro suonerebbe abbastanza assurdo dire che la minigonna è uno strumento di oppressione dal momento che migliaia di donne sono costrette ad indossarla come primo passo per altre forme di violenza e coercizione. Questo ragionamento in effetti è assurdo dall’inizio: cosa c’entra lo sfruttamento sessuale delle donne nel mondo con la minigonna?

Mezzi di oppressione?

Una simile domanda la pongo ogni volta che, di fronte a una donna musulmana che denuncia episodi di discriminazione anche violenta a causa del suo hijab (copricapo islamico femminile), sento persone non musulmane ripetere meccanicamente: “Sì, però il velo non può essere una libera scelta, è anche strumento di oppressione, tante donne sono costrette ad indossarlo!”. Ora, vogliamo tuttə insieme renderci conto che questo ragionamento non ha alcun senso? Il così-purtroppo-detto velo non può essere uno strumento di oppressione in sé: in fondo, come tutti gli altri capi di abbigliamento, è solo un pezzo di stoffa.

In contesti familiari o sociali dove le donne vivono forme di oppressione dovute a retaggi culturali, a una certa interpretazione dei rapporti uomo-donna, a condizioni di povertà e mancanza di istruzione, guerre, passati coloniali da cui liberarsi e così via, il velo può diventare la manifestazione di tutto questo. Ma quando le donne nello spazio Europa lamentano di sentirsi emarginate, di subire sguardi ostili e comportamenti discriminatori, stanno parlando di un altro fenomeno. Andrebbero ascoltate in silenzio, in nome dei diritti umani, della parità di genere, della libertà di espressione, del rispetto delle diversità – categorie che si fatica a tirare fuori quando i protagonisti sono cittadinə musulmanə.

donna musulmana islam luce“Freedom is in hijab”

Lo dimostra il fatto che di recente è stata ritirata la campagna europea di sensibilizzazione per il rispetto delle donne che indossano lo hijab. Fatta passare come una campagna di promozione all’uso dello hijab, ha suscitato fortissime polemiche basate su un’interpretazione volutamente fuorviante della frase “Respect hijab” (Rispetta lo hijab), che non è un invito ad indossare il velo islamico, ma ad averne rispetto.

Ulteriori polemiche sono state suscitate dalla frase “Beauty is in diversity as freedom is in hijab” (La bellezza è nella diversità come la libertà è nello hijab). Ma sottolineare che anche in uno hijab può esserci libertà era necessario? Sì, se si pensa che la gran parte dei comportamenti discriminatori contro le donne che indossano il velo riguarda proprio la presunta mancanza di libertà che c’è dietro la loro scelta.

La libertà, tuttavia, per essere espressa e agita, ha bisogno di condizioni materiali, politiche e sociali favorevoli. Se non si giunge a comprendere che laddove l’uso dello hijab non è frutto di una libera scelta, non lo sono neanche altre scelte, perché le condizioni non permettono l’espressione della libertà, sulla questione non si potrà mai ragionare seriamente. È come dire: “La minigonna non può essere una libera scelta, perché tante donne in particolari condizioni sono costrette a indossarla“.

Nel cammino di fede

Ovviamente anche il paragone tra lo hijab e la minigonna (o qualsiasi altro capo di abbigliamento) ha molto poco senso. Lo hijab è un modo di rapportarsi al proprio corpo e di curare il suo aspetto esteriore attraverso l’abbigliamento all’interno di un cammino di fede espresso da un insieme di atti di culto, chiamato Islam. Per molte donne, inclusa la sottoscritta, è un comportamento obbligato al fine di restare salda nel cammino di fede.

Chiunque pratichi una disciplina sportiva sa che, se si vogliono raggiungere i risultati sperati, ci si allena quando se ne ha voglia e anche quando non se ne ha voglia, quando si è stanchə e quando si è pienə di energia. Lo stesso vale per le pratiche religiose: se si desidera giungere a una certa maturità spirituale bisogna tenere in allenamento il cuore attraverso una disciplina fatta di preghiera, della lettura del Testo Sacro e di altre pratiche. Chi vive l’Islam ha priorità e prospettive che ruotano intorno alla fede ed è alla ricerca continua di una crescita spirituale.

corano islam sharia musulmaniNessuna costrizione

Ci sono donne che si sentono meglio a esprimere il proprio vissuto spirituale attraverso lo hijab, che lo portano con gioia e consapevolezza, nonostante sia ancora difficile nello spazio Europa anche solo parlarne. Altre invece non ne fanno uso, perché il cammino di ognuna è diverso. Dal punto di vista religioso ogni atto di culto deve essere compiuto senza nessun tipo di costrizione, ma secondo un’intenzione pura che è un movimento del cuore che spinge i credenti ad agire. La libertà ha una connotazione diversa per chi crede, e questa diversità andrebbe presa in considerazione e rispettata.

Ci sono molte donne che non vogliono piegare la descrizione delle proprie esperienze biografiche alle esigenze di chi ha paura dell’Islam. Non vogliono più ricevere domande insistenti sul loro modo di vestire: “Come mai oggi il tuo velo ha un colore diverso?”, “Ma quando ti fai la doccia lo togli?”, “Ma non ti dà fastidio in estate?”, e infine “Lo hai scelto tu o qualcuno ti ha costretto?”.

Una scelta obbligata

Allora, diciamolo una volta per tutte: lo hijab non è stata una mia libera scelta, è stata una scelta obbligata dall’esperienza della fede, obbligata da quello che ho sentito nel momento in cui, guardandomi allo specchio con il viso circondato da un pezzo di stoffa, ho detto: “Ecco, questa sono proprio io”.

Questa è la mia personale esperienza, che ho il diritto di scrivere e raccontare, diritto che la maggioranza delle donne nel mondo non ha perché chi detiene il potere economico e politico non si è mai preoccupato fino ad ora di eliminare le cause strutturali della disuguaglianza. In Europa, il lusso dei diritti non è condiviso da tuttə e lo sappiamo molto bene, lo sappiamo tuttə a prescindere dalla visione politica, e non vogliamo farci i conti, perché fa male. Sì, la disuguaglianza fa male: tanto meglio discutere di un pezzo di stoffa.

 

Rosanna Maryam Sirignano
©2021 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazioni da Pexels (CC0) / da agung foy (CC0) / da Afshad (CC0)

 

Rosanna Maryam Sirignano: “Conoscenza, formazione, dialogo, spiritualità sono le parole attorno alle quali ruota la mia esistenza e il mio lavoro. Ho fondato MaryamEd Formazione Transculturale, uno spazio di condivisione del sapere oltre i confini. Da quando sono nata abito un corpo femminile che dal 2010 è diventato islamico attraverso l’uso del velo” > leggi tutti i suoi articoli

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One Comment

  • Mansoor ha detto:

    Purtroppo sorella i pregiudizi legati alla scelta del proprio vivere la fede ,è qualcosa di triste
    Per non parlare di chi insulta, se non addirittura aggredisce ragazze e donne che portano il velo ad esempio

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