Skip to main content

L’omicidio del giornalista pietroburghese Dmitrij Cilikin, ammesso dallo studente pietroburghese ventunenne Sergej Kosyrev, fan di Breivik e, evidentemente, sostenitore di posizioni di estrema destra [Lenta], ci ricorda della violenza verso le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), che spesso rimane impunita a causa della paura delle vittime e dell’omofobia istituzionalizzata, anche all’interno della polizia. Ali Feruz ne ha parlato con degli attivisti per i diritti umani, con delle vittime e con un agente della polizia moscovita.

Marja Kozlovskaja
avvocatessa dell’organizzazione per i diritti umani Rossijskaja LGBT-set’ (Rete LGBT russa)

“A Pietroburgo un’ondata di violenza è cominciata da qualche parte a partire dal 2012, la situazione fino a quel momento era migliore. Le aggressioni erano significativamente minori, e quando si veniva attaccati, l’omofobia non era chiaramente manifesta. Gli aggressori non dicevano: ‘Ti picchio perché sei gay’. Adesso però stanno ‘proteggendo’ la legge sulla propaganda, e il legame tra la legge e l’aumento della violenza nei confronti delle persone LGBT è evidente. La legge è diventata il segnale che questo tipo di violenza è accettabile.

“Spesso si tratta di un business criminale organizzato per l’estorsione. Spesso il modus operandi con cui agiscono i criminali è lo stesso su cui si basava il ‘movimento’ Occupy Pedophilia. Sui siti d’incontri (l’ultimo caso di cui ci siamo occupati è avvenuto attraverso Grindr), qualche volta sui social network come VK, queste persone creano il profilo di un ragazzo, di solito di 18-20 anni, e invitano la vittima a un appuntamento, insistendo affinché la vittima li inviti a casa.

“Dopo un po’ arriva un gruppo di ragazzi, certe volte con la videocamera, che inizia ad abusare, estorcere denaro, impossessarsi del cellulare, intimidendo, minacciando di informare la famiglia e i colleghi, facendo ricorso alla violenza. Spesso si impossessano di oggetti: borsa, telefono, documento di identità, gadget. Se c’è una carta di credito, la persona viene accompagnata al bancomat con una scorta. Ci sono stati casi in cui hanno tenuto il documento e poi richiesto un riscatto. I pestaggi, quando questi incontri sono organizzati solo per la violenza diretta, ormai sono diventati una prassi.

“È un business criminale organizzato. Nella maggior parte dei casi le vittime non vogliono rivolgersi alla polizia. Sono spaventate, hanno paura che il loro orientamento venga rivelato, per questo vengono da noi.

“Ho accompagnato di persona un uomo a cui avevano preso il documento di identità, siamo andati dalla polizia a scrivere una denuncia. L’inquirente suggeriva di telefonare al colpevole, che, ovviamente, non rispondeva. Il suo collega è uscito dall’ufficio e l’ho sentito ridere forte e dire a qualcuno: ‘Sono arrivati dei froci, adesso ci tocca pure difenderli…’. L’uomo che era stato vittima di aggressione e intimidazione ha sentito tutto. La polizia spesso non solo non vuole prendere denunce per motivi che ritiene pretestuosi, ma offende anche le vittime.

“Di tutte le denunce da noi depositate nessuna è stata investigata seriamente. Nel 2015 la nostra organizzazione Rossijskaja LGBT- set’ ha documentato 284 casi di violenza e discriminazione. Soltanto negli ultimi sei mesi si sono rivolte a noi per supporto legale 107 persone”.

Aleksandr Smirnov
ex-segretario del vicesindaco di Mosca, con il compito di occuparsi della politica legata alla costruzione degli edifici sia commerciali che residenziali

“La prima volta che mi sono imbattuto di persona nell’omicidio di un omosessuale è stato a Blagoveščensk [nella Russia orientale; ndr]. Era il 2003. Viktor aveva 39 anni. Era a capo di un’enorme agenzia di vendita di beni immobili. Allora mi preoccupavo per il fatto che gli investigatori avrebbero cercato di controllare tutti quelli con cui la vittima aveva parlato al telefono il giorno prima. Non avevo paura che mi ritenessero sospetto, ma che avrebbero rivelato il mio orientamento.

“Dopo ci fu una serie di omicidi di giornalisti a Mosca. I media indipendenti della capitale avevano parlato apertamente dell’omosessualità delle vittime. Alcuni li conoscevo personalmente, e si era creato in me il sospetto che ci fosse una persecuzione sistematica. In realtà questa sensazione era nata perché l’uccisione di un giornalista era ritenuta più ‘interessante’ tra i media rispetto a quella di un commesso o di un contabile. Il numero di giornalisti gay terrorizza anche perché ci fa pensare a come siano reali le cifre delle vittime per omofobia.

“Anche a una mia amica hanno ucciso un amico, nell’estate del 2010. Il ragazzo, Dmitrij Okkert, aveva 26 anni ed era un tecnico della televisione. Due giorni dopo la sua morte è andata da lui, la porta era chiusa, il ragazzo morto, ucciso a coltellate. Ricordo che lei mi disse: ‘Non bisogna andare con conoscenti a caso’. Ma quante volte bisogna uscire con qualcuno prima di invitarlo in casa? Nel mio caso l’aggressione era avvenuta dopo che la persona era già stata da me una volta.

“Ci eravamo conosciuti nel 2012 in un territorio neutrale di Mosca, dopo eravamo andati da me, avevamo fatto sesso. Dopo un po’ di tempo il ragazzo mi aveva richiamato, diceva che voleva che ci incontrassimo di nuovo. In quel periodo vivevo a Korolëv [città nei pressi di Mosca; ndr], vennero da me con il treno. Il suo complice era andato da qualche parte vicino. Aprirono la porta, tutto sembrava normale, stavo preparando qualcosa da mangiare, avevo apparecchiato la tavola, la TV era ad alto volume.

“Quello che ricordo dopo è un colpo in testa, ma non persi conoscenza e capii dall’odore che mi avevano colpito con una bottiglia di birra. Mi voltai e vidi che il ragazzo aveva in mano il collo di una bottiglia, una ‘rosellina’. Accanto ce n’era un altro, arrivato senza farsi sentire. I due uomini avevano un aspetto slavo, niente di evidente. Uno teneva la ‘rosellina’ alla mia gola, l’altro un coltello.

“Ero scalzo, avevo messo un piede sul vetro e mi ero tagliato, ma non sentivo il dolore. Dalla testa mi scorreva del sangue. Avevo una paura tremenda. Due uomini, armati, senza possibilità di fuga, nessuno in vista. La gola mi si era seccata terribilmente. Cercavo di pensare. ‘Cazzo, non ho paura di morire, ma non sono pronto a una morte simile’.

“La prima cosa che dissi fu: ‘Prendete tutto, computer, soldi, ma non uccidetemi’. Umiliante, ma è stato così. Mi torturarono per circa un’ora. Ad un certo punto il ragazzo che avevo già incontrato mi disse, letteralmente: ‘Per colpa di quelli come te anche mio fratello è diventato gay’. Ciò significa che egli non si riteneva gay.

“Poi mi chiesero prove che non lo avrei raccontato a nessuno. Avevo un ottimo lavoro, spiegai che sarei stato licenziato se fossero venuti a sapere della faccenda, e che non sarei andato dalla polizia. Quindi mi fecero spogliare, scattarono delle foto pornografiche, presero il mio notebook, il telefono, contanti, volevano che prendessi dei soldi dalla carta di credito, ma forse pensarono che non sarebbe stato sicuro, svaligiarono l’appartamento e uscirono. Uscendo dissero che avrebbero aspettato all’entrata per assicurarsi che non avrei chiamato per chiedere aiuto.

“Dopo di quello mi sedetti sul divano cercando di riportare il mio respiro a un ritmo naturale. Dopo trovai un vecchio notebook, scrissi a un amico affinché chiamasse il mio capo, il vicesindaco di Mosca, e lo avvisai che non sarei andato a lavoro, che mi avevano attaccato per strada e sarei rimasto in ospedale. I miei colleghi volevano venire, ma io rifiutai. Non potevo vedere nessuno.

“Quando entrai in contatto con la mia amica la sua reazione fu: ‘Ti avevo avvertito’. Ma avevo bisogno di altre parole, parole di supporto, a quel punto ci rimasi molto male. Adesso capisco che per lei sarebbe stata dura seppellire un altro amico.

“In generale, non auguro a nessuno di passare quello che dopo passai io. Per me fu moralmente difficile rimanere in questo appartamento, avevo paura di andare in metro, pensavo continuamente di rincontrare quegli uomini.

“Molti sono sorpresi che io non abbia chiesto aiuto, anche per supporto psicologico, ma ho capito che sarei sopravvissuto, e basta. Ma gli omosessuali della Federazione russa devono vedersela con questi attacchi da soli. Perché dopo la violenza fisica si prova anche uno stupro psicologico in ambulanza, o dalla polizia. Non deve essere la vittima a provare vergogna, ma il criminale. La nostra vergogna, sbagliata, è alimentata impunemente.

“Adesso sono già 15 mesi che sono in America, faccio lo scaricatore. Vado da uno psicologo… Beh, credo di stare bene… E’ il tredicesimo giorno di lavoro. Ma non mi sono mai pentito di aver lasciato la Russia”.

Aleksej Levašev
economista

“L’aggressione è avvenuta in via Sučkovyj sull’isola Vasil’evskij [a San Pietroburgo; ndr] il 22 novembre 2015 alle 10 di sera. Uscii dall’edificio dove si era tenuto il festival LGBT Bok o bok (Fianco a fianco) e andai verso la stazione. Ero da solo e improvvisamente mi ritrovai circondato da alcune persone. Di fronte a me un tipo atletico con i baffi mi bloccava la strada. Non era un ragazzino, sembrava un pugile. Dietro sembrava, sai come… come quando i lupi portano i cuccioli a caccia. Li portano perché imparino come bisogna attaccare. Forse tra loro c’erano addirittura dei minorenni.

Queste persone avevano tratti somatici slavi, non vidi niente di caucasico. Era come se fossimo in guerra: ti uccidiamo perché sei un soldato. Quindi nessuno mi parlò. L’uomo mi bloccò il passaggio, mi disse: ‘Ciao, frocio’ o ‘Tieni, frocio’. Dopo mi coprii la faccia e non vidi nulla.

“Mi ruppero due costole e mi danneggiarono i reni. Il pestaggio durò per più di sette minuti. Non ricordo esattamente il numero di persone. Per scappar via da loro corsi sulla riva e subito chiamai la polizia. Dopo, mi hanno raccontato, la polizia andò sul luogo, ma non trovò nessuno, o, evidentemente, non volle farlo. E ai dottori e alla polizia spiegai che l’aggressione era avvenuta per motivi omofobici. Tuttavia il giorno dell’attacco parlai con la polizia solo per telefono. Potei incontrare l’investigatore di persona solo dopo una settimana.

“Quando andai dalla polizia la situazione era pesante. Ero pieno di ferite, gonfio, non mi sentivo per niente a mio agio. In generale non mi sento a mio agio quando comunico con la polizia. Visto che sono sovietico e ho 50 anni, so perfettamente come si comporta con le persone LGBT.

“Presero la mia dichiarazione, ma praticamente non cercarono i miei assalitori. Addirittura aprirono un’indagine criminale solo per le richieste dell’avvocato per ‘ferite lievi’, senza specificare l’aggravante, cioè che l’aggressione era avvenuta per crimini d’odio. Dopo un po’ di tempo smisero di indagare, perché le identità degli aggressori ‘non si erano potute stabilire’.

Durante il periodo sovietico la polizia era ostile nei confronti degli omosessuali, era considerato un crimine, negli anni Novanta qualcosa stava migliorando, ma dal nulla la situazione è ritornata uguale”.

XXX
sottotenente della polizia del quartiere nord-est del distretto di Mosca (è voluto rimanere anonimo)

“Durante il mio lavoro non ci sono stati momenti in cui i gay hanno chiesto aiuto. Non ne ho sentito parlare, né dai colleghi né in televisione. Abbiamo un lavoro da fare, e lo portiamo a termine, non sono importanti la fede e i principi di una persona, qual è il suo orientamento e, in generale, non ci sono differenze. Se venissero due gay che sono stati aggrediti, io prenderei in considerazione la loro denuncia. Sono cittadini come altri. Mi terrei per me la mia opinione, e farei il mio lavoro.

In generale, ho la mia opinione sulla questione. Non accetto l’omosessualità, ma non con lo scopo di… come dicono: ‘Bisogna ucciderli’, eccetera eccetera. So che esistono, e che sono una cerchia ristretta. Bene, che vivano come vogliono. L’importante è che non si facciano vedere dalla gente. Quando si baciano è brutto e indecente, sono contro queste cose, le considero corrotte, bisogna creare una legge. Sostengo assolutamente la legge contro la propaganda.

“A essere onesto, non ne ho mai incontrati, in 26 anni di vita. Non li ho visti neanche una volta, ma ho sentito di cosa si tratta. Ho visto solo su YouTube come organizzano le parate. Se avessi un amico, diciamo, che lo fosse e io lo venissi a sapere, il mio atteggiamento verso di lui cambierebbe. Sarei molto più attento con lui. Non che mi venisse in mente di picchiarlo o cosa… Ma i contatti con lui diminuirebbero, non andrei con lui nei parchi e non ci mangerei il gelato assieme. Comunicherei con lui solo per qualche necessità.

“Mi considero un russo, la nostra cultura è stata sempre contraria. E il nostro paese è contrario. Gli altri poliziotti sono anch’essi persone e si rapportano negativamente a questa cosa. Ovviamente non parlo di questi argomenti con i miei colleghi, non c’è nulla di cui parlare. Forse c’è stata qualche parola ogni tanto, una risata a tal proposito. Ci sono, e nessuno li ama, è quelto quello che si dice.

“Se due gay si difendessero e si azzuffassero con qualcuno, considererei la questione da un punto di vista legislativo. Ma dentro di me, naturalmente, sarei dalla parte di una persona comune, non di un gay. Gli suggerirei cosa deve fare senza infrangere la legge. Come venir fuori vincitori, in modo corretto, da questa situazione”.

 

Ali Feruz per Colta
traduzione di Irene Benina
©2016 Colta – Il Grande Colibrì

2 Comments

  • Vittoria ha detto:

    La cosa ridicola è che questi russi si definiscono pure cristiani. Se pensate queste cose, cari russi siete delle M puntini puntini.

  • effe emme ha detto:

    Che situazione tremenda, e quanta ingiustizia… La testimonianza del poliziotto mi ha fatto venire dei brividi freddi. Sarebbe bello pensare che le cose cambieranno, ad un certo punto, ma sembra che l'omofobia sia davvero radicata nell'atteggiamento e nel pensiero comune dei russi. In ogni caso grazie per aver condiviso l'articolo!

Leave a Reply to Vittoria Cancel Reply