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Concluse le primarie del Partito Democratico e di Sinistra, Ecologia e Libertà, è tempo di bilanci anche per i candidati LGBTQ*. In queste consultazioni sono stati in nove ad affrontare il verdetto delle urne, cinque nel PD e quattro in SEL. A Padova Alessandro Zan, attivista di lungo corso in Arcigay e assessore all’ambiente, è risultato il più votato nella lista maschile del partito di Nichi Vendola, praticamente assicurandosi un posto a Montecitorio, se non verrà scavalcato da qualcuno attraverso il famigerato listino imposto dalla segreteria centrale. Sergio Lo Giudice, ex presidente di Arcigay e capogruppo democratico nel consiglio comunale, grazie a più di 4800 voti raccolti nelle primarie bolognesi del PD, è arrivato settimo tra 14 candidati: quanto dovrebbe bastare per assicurarsi l’ingresso in Parlamento.

Hanno raccolto numerose preferenze anche Paolo Oddi a Milano (quinto su 12 per SEL) e Dario Ballini in Val di Cornia – Isola d’Elba (terzo su 4 per il PD), ma il loro buon risultato non sarà probabilmente sufficiente per l’elezione. Tutti gli altri candidati hanno raggiunto invece risultati deludenti: ben tre sono stati i meno votati tra tutti i candidati del loro collegio (il piddino Enrico Fusco a Bari e i vendoliani Carlo Cremona a Napoli e Alessandro Golinelli a Milano), mentre Enrico Pizza, assessore a Udine, è arrivato solo penultimo e Benedetto Zacchiroli, renziano di Bologna, è giunto dodicesimo a Bologna, raccogliendo meno della metà dei voti destinati a Lo Giudice.

A osservare meglio la situazione, poi, c’è ancor meno da stare allegri. In fondo solo lo 0,6% di chi si è candidato è dichiaramente LGBTQ*, anzi gay o bisessuale: di lesbiche e transgender neppure l’ombra. E a proposito di percentuali, anche quelle trionfalmente presentate da Arcigay (“E’ un ‘sì’ secco e deciso quello ai matrimoni per tutti, e supera l’80% dei consensi tra i candidati del PD e il 90% tra quelli di SEL“) sono da valutare con attenzione: in realtà solo 90 candidati su 1500 hanno risposto al questionario della principale associazione gay e lesbica italiana, il che significa che appena il 5% dei candidati dei due partiti di centro-sinistra ha preso un impegno formale a favore delle nozze omosessuali… Sui diritti delle persone transgender, poi, il silenzio è persino inquietante.

E l’attenzione ora già si dirige sui listini (diminutivo paradossale: il 10% dei candidati di Bersani si tradurrà comunque in circa un quarto degli eletti in Parlamento, mentre Vendola si è garantito l’incredibile quota della metà dei posti in SEL), che assicureranno l’elezione senza affrontare la tediosa fatica democratica delle primarie. E qui Paola Concia, unica deputata lesbica dell’uscente Camera, dopo innumerevoli cambiamenti d’idea “alla Monti”, ora pretende un posto, mentre Ivan Scalfarotto, vicepresidente gay del PD, giura di non pensarci, ma in realtà sembra dare per scontata – e dovuta – la propria candidatura. Loro due, spiegano, si occupano di questioni nazionali e tecniche: non potevano certo abbassarsi al confronto con altri candidati sul territorio, no?

Non spiegano, però, secondo quale criterio qualcuno (gli altri, gli “eligendi”) debba sottoporsi al voto democratico e qualcun altro (loro, gli “Eletti”) no. D’altra parte, non avanzano neppure un minimo dubbio su correttezza e – considerando la totale assenza di risultati – efficacia della strategia di presentare la “questione LGBTQ*” come un affare di lobby, una questione tecnica da portare avanti attraverso personaggi che, politicamente, sembrano esaurirsi unicamente nel proprio orientamento sessuale. Per fortuna la maggior parte dei candidati gay delle primarie aveva una visione più ampia e articolata e si è impegnata molto sia per i diritti civili di omosessuali e transessuali sia per altre questioni (ad esempio, Zan per l’ambiente o Oddi per gli immigrati).

D’altro canto, ancor meno giustificate sono state altre scuse avanzate da chi pretende un posto nel listino. Ivan Scalfarotto incredibilmente spiega: “Presentandomi alle primarie, avrei rischiato di rovinare, in pochi giorni, il lavoro di anni” (sic!) e, comunque, “il tempo per una campagna elettorale sarebbe stato pochissimo” (Huffington Post). Se è vero che le firme da raccogliere per partecipare alle primarie del PD erano davvero tante, finanche eccessive, per un candidato “sconosciuto” e che l’assenza di una vera campagna elettorale ha imposto a molti candidati “sconosciuti” di rimanere tali, tutto questo non può certo valere per il vicepresidente del partito…

E meno ancora può valere per una deputata come Paola Concia, molto presente sui media. Eppure è proprio lei a denunciare: “Ho cercato dei contatti con il partito, ma non sono riuscita a incontrare nessuno“, e ancora: “Avevo cercato di candidarmi alle primarie ma non ne ho avuto la possibilità“. Il misfatto (?) è spiegato da Pirani su Repubblica: la deputata avrebbe chiamato ben quattro volte il partito, senza ricevere risposta, e, dunque, come avrebbe potuto candidarsi? Forse come hanno fatto tutti gli altri, scaricando i moduli da internet e raccogliendo le firme? O Concia pretendeva che le firme le arrivassero già belle e pronte, su un piatto d’argento, in una bella auto blu (come forse accaduto per altri)?

Nulla di sorprendente per una politica che ha preteso che la battaglia per estendere anche a se stessa i privilegi dei parlamentari sposati fosse una priorità nella lotta per assicurare pari diritti a tutti. Che ha sempre presentato come un matrimonio la propria unione civile, esattamente come ha incensato come paladina dei diritti Mara Carfagna, ministra in realtà impotente e soprattutto inadeguata, o come ha magnificato la propria proposta di legge contro l’omofobia, debole e ambigua, in un vortice di confusione voluta o non voluta che ha raggiunto il suo apice nel significativo contributo nel dare un’immagine (falsa) di democraticità ai peggiori omofobi e razzisti, con l’amichevole visita alla neofascista CasaPound.

Servirebbero invece politici coraggiosi, che siano interessati più a difendere i diritti che a rovinarsi la carriera, che ricerchino contatti più con la gente e la società che con il partito, che non abbiano paura di confrontarsi con la realtà, che non soffrano di vertigini ad uscire dai corridoi del palazzo, che capiscano che rifuggire la cultura omofobica significa anche rifuggire l’arroganza del potere. Da questo punto di vista, l’esito delle primarie, con i suoi chiaroscuri nei risultati e con l’emergere comunque di proposte nuove, è un bicchiere mezzo vuoto da riempire.

 

Pier
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RASSEGNA STAMPA
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Movimento. A Natale sono stati distrutti di nuovo gli uffici di “Minoranze Sessuali d’Uganda”.
Politica. GayLib appoggia Monti, il candidato del Vaticano che non riconoscerà i diritti LGBT.

4 Comments

  • Anonimo ha detto:

    In realtà non c'è nulla di strano nelle parole di Concia. Le regole delle primarie erano tali che servivano 500 firme di iscritti che non avessero firmato per nessun altro, perciò di fatto per riempire tutti i "posti" avrebbero dovuto firmare per qualcuno tutti gli iscritti dal primo all'ultimo, rigorosamente divisi equamente, concentrati in una singola provincia, abbastanza organizzati fra di loro per trovarsi tutti nel giro di pochi giorni. La richiesta di Concia era semplicemente che il PD riconoscesse la lotta per i diritti civili come un obiettivo qualificante del programma del partito, degno di una candidatura quanto la lotta alla mafia (Grasso) o il rispetto dei migranti (Boldrini): si può non essere d'accordo ma è una posizione legittima. È il naturale complemento della scelta di candidare rappresentanti non del programma generale (come dici tu) ma del "territorio" (come dice il regolamento), cosa che non si vede perché Concia dovesse essere costretta a fare.

    • Il Grande Colibrì ha detto:

      No, non c'è nulla di strano se inquadriamo quelle parole nel modo di intendere la politica in Italia. Che i requisiti per le primarie siano stati eccessivi per una reale partecipazione popolare l'ho già scritto, che una delle deputate più in vista del primo partito d'Italia non sia in grado di raccogliere 500 firme, invece, mi sembra che la dica lunga sull'abisso che separa alcune personalità dai cittadini comuni. Il risultato, purtroppo, lo si è visto.

    • Michele Benini ha detto:

      La cosa curiosa è che se io mi fossi voluto candidare alle primarie avrei dovuto trovare 500 firme essendo un perfetto sconosciuto, mentre una persona popolare (anche se – a mio parere – ingiustamente) ha diritto a non essere in grado di farlo…
      Il meccanismo mi sfugge, ma sono sicuro che sia un problema mio.

  • Michele Benini ha detto:

    Certo che Concia e Scalfarotto mettono proprio tristezza…
    E l'impegno dei candidati alle primarie? Spero che sia stato così poco sottoscritto solo perché non è stato possibile raggiungerli tutti e non per altre ragioni, altrimenti le promesse di Bersani si riveleranno bugie forse ancora prima della scadenza elettorale.

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