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Io non sono figlio dei miei genitori, ma dell’acqua. Mia madre e mio padre hanno messo i cromosomi, ma l’acqua, l’acqua cattiva, li ha mescolati come si mescolano le carte. Io sono il frutto di quella partita a carte. Io sono chi l’ha persa, quella partita. Sono il figlio del caso, dell’errore, dell’orrore. O forse sono il figlio semplicemente di una storia, incommensurabilmente diversa da ogni altra storia come lo sono tutte le storie, anche quelle più banali.

La mia malattia è nata prima di me. E prima di me la mia malattia è stata la malattia di mia madre: un senso di stanchezza millenaria, un mal di testa martellante che la inchiodava a letto tutto il giorno. Si alzava solo per andare in bagno, quando la nausea diventava così forte da darle l’illusione che, finalmente, fosse arrivato il momento di vomitare. Invece vomitava solo rantoli angosciosi. Durò pochi giorni, ma furono giorni terribili.

L’unico pensiero che dava speranza ai miei genitori era quello che forse mia madre era finalmente rimasta incinta, anche se i cicli precedenti erano stati tutti regolari. Ci si consolava poi con il fatto che in tutta la zona serpeggiava un senso di spossatezza generale, colpa della primavera o di una strana influenza, si diceva. Ma i sintomi di mia madre facevano pensare a qualcosa di più. Presero appuntamento con il medico per un lunedì. Ma quella visita non ci fu.

Quella domenica mattina arrivarono i pullman della Protezione Civile. Evacuarono tutta la zona e chi non voleva andare se la doveva vedere con i soldati. Durante quel viaggio verso non si sapeva dove a mia madre tornarono le sue cose. Mia madre non era incinta, non era a lei che si stavano rompendo le acque.

Io sono stato concepito molti anni dopo i fatti di Manduria e molto lontano da Manduria. Non ho vissuto quella tragedia. Non ho vissuto niente se non questa vita sulla sedia a rotelle, con il midollo osseo sulle montagne russe. A volte penso che mi dovrei sentire uno sfigato, una vittima. Se la storia fosse andata diversamente oggi vivrei una vita “normale”. Ma poi, in fondo, penso che quella vita non sarebbe la mia vita, non sarebbe la mia storia, che, nel bene e nel male, è questa qui, su questa sedia, con questo midollo.
Devo essere sincero: non mi aveva mai pesato più di tanto starmene seduto qua sopra, non poter correre con gli altri bambini, passare ore e ore in ospedale, andare a letto senza la sicurezza di risvegliarmi al mattino. Non mi hanno pesato più di tanto neppure gli sguardi degli adulti, sempre così pieni di pietà per nascondere la paura di diventare come me e il sollievo di non essere come me.
Poi è arrivato il momento in cui mi sono sentito brutto, inutile, immobile. E’ successo quando ho visto Farid.

Non è da molto tempo che i miei genitori mi lasciano girare da solo per il parco. Ancora adesso il sorriso con cui mi dicono “A dopo!” è troppo teso, finto, ancora adesso gli occhi presagiscono chissà quale tragedia incombente quando mi depositano davanti ai cancelli.
Io giro senza meta, con la finta autonomia che mi dà la carrozzina elettrica. Quando passo, la gente interrompe i suoi discorsi mentre si scansa per lasciarmi passare. Io sono il silenzio che congela i litigi, le promesse d’amore, le chiacchiere inutili.
Farid invece non ha interrotto nessun discorso. Era in silenzio, a leggere un libro sotto l’ombra di un albero. Magro, il volto sottile che terminava in un mento appuntito, gli occhi allungati, i capelli neri troppo ingellati che sembravano tagliati con il righello, la carnagione scura che raccontava storie di mare e di deserto. Così assorto in sé stesso e nella sua lettura da sembrare anche lui un albero, al tempo stesso così presente in quello spazio e così estraneo a tutto quello che gli capitava intorno.
Ad un tratto, inaspettatamente, alzò lo sguardo. Fu come assistere a un evento epocale, alla fine tranquilla di un’eternità. Io ero davanti a lui in quel momento e i suoi occhi caddero su di me.

Dopo qualche minuto, in cui lui continuava a fissare il suo libro, senza mai girare la pagina, si alzò, di scatto, e venne verso di me.
“Ciao, hai da cambiare moneta?” chiese, con quella erre che fa le fusa, tipica di tutti i francesi come lui.
“No… cioè, sì, non lo so, dovrei controllare…” risposi agitato, incapace di nascondere l’ansia suscitata da quell’incontro al tempo stesso così banale e così inaspettato.
“Ma come ti chiami?” chiese ancora, senza darmi il tempo di cercare il portafoglio.
“Io?” domandai – e quasi mi veniva da guardarmi attorno, alla ricerca di qualcun altro. Poi gli risposi, con un imbarazzo esagerato, come se stessi rivelando chissà quale intimo segreto: “Giorgio”.
“E io sono Farid, piacere. Vengo spesso qui a leggere, sai? Ma non ti ho mai visto prima. E’ che, quando leggo, non vedo niente, se il libro mi piace. Ora sto leggendo questo romanzo, lo conosci?”.
Passammo il pomeriggio a parlare. Anzi, era quasi sempre lui a parlare: di libri, di scuola, di calcio, di film, di cibo, di musica… Era un maremoto di parole e io mi lasciavo trasportare su quelle onde ancora sconosciute eppure già così rassicuranti.

Quando i miei genitori vennero a riprendermi ai cancelli del parco non riuscirono a nascondere la sorpresa di vedermi con accanto qualcuno.
“Ma chi è?” chiese mia madre.
“Un amico”.

Farid sorrideva sempre, non stava mai fermo, rideva, parlava – mio dio se parlava! Stare accanto a lui mi faceva sentire vivo come non mi succedeva da molto tempo. E mi faceva sentire male, perché avevo l’impressione di essere un peso per lui. Se non mi avesse conosciuto, pensavo, avrebbe avuto un altro amico con cui correre e andare a ballare e firtare con le ragazze, e invece eccolo lì a parlare a un povero handicappato. Mi sentivo in colpa a vederlo seduto su una panchina al parco o su una sedia accanto al mio letto di ospedale. Mi sembrava in gabbia.
E anche se non c’era mai nessuna traccia di pietà in quel che faceva e diceva, questa cosa mi sembrava impossibile. Doveva esserci, dovevo essere io che non riuscivo a vederla.

Quel giorno Farid mi disse che dalla collinetta di rocce che stava in mezzo al parco si riuscivano a vedere i palazzi dove vivevamo. A me sembrava impossibile, mi sembrava troppo bassa.
“Ma figurati!” gli dissi.
“Non ci credi?” chiese serio.
“No che non ci credo!”.
“Allora vedrai” ribatté sorridendo e, tra i miei rimproveri impauriti, mi sollevò dalla carrozzina e mi prese sulle spalle. Si vedeva che faceva fatica, non era un ragazzo molto forte, ma non la smetteva di ridere e gridare.
Iniziò a salire sulla collinetta, traballando, con un braccio mi teneva le gambe, con l’altro a volte si aggrappava agli spuntoni, io mi aggrappavo al suo collo, con il cuore che batteva di festa e di terrore. All’improvviso scivolò, cademmo contro la pietra, senza troppa violenza.
“Scusami! Ma ti sei fatto male?” chiese allarmato.
“Ho sbattuto il gomito…” gli risposi a fatica, con il cuore che pulsava tutto il mio spavento.
“Fammi vedere” ribatté. Poi, dopo una rapida ed attenta occhiata, aggiunse: “Ma dai, non è niente, tieniti forte!” e di nuovo mi prese sulle spalle e ricominciò la scalata, rischiando di scivolare chissà quante altre volte. Arrivammo in cima alla collinetta, finalmente.
“Visto che non si vedono i nostri palazzi?” esclamai, tra il trionfo di avere vinto e la delusione per un panorama che non aveva proprio niente di speciale.
“Però qui non ci vede nessuno” ribatté lui.
Mi girai, non capendo cosa volesse dire. E fu allora che lui appoggiò le sue labbra alle mie, rubandomi un velocissimo bacio.
“Se ti amo ti arrabbi?” chiese con una timidezza che non gli avevo mai visto e che non avrei mai immaginato.
“Ma…” balbettai, senza sapere cosa dire. “Io… Io non sono bello, sono sulla sedia a rotelle e invece tu sei bello, Farid. Poi non vado bene, non rido e non scherzo, sei troppo simpatico e spigliato per amare uno come me…”.
“Io ti amo, il resto che importa?”.
“Ma non si può amare uno come me, Farid, sono… sono un errore genetico io!”.
Fece una smorfia, ferito da quelle parole. Aveva le lacrime agli occhi, deluso e impaurito dalla possibilità di un mio rifiuto: “Basta avere un cuore per amarti, Giorgio”.
“No, non basta”.
“Io di cuori ne ho quattro e bastano di sicuro. Ho quattro piccoli cuori nel petto e ti giuro che tutti e quattro sono pieni di amore per te”.
Farid mi raccontò che i suoi genitori erano in vacanza in Salento quando accadde l’incidente. Anche lui era figlio dell’acqua cattiva. Era un compagno mandatomi dal destino.

I nostri incontri, a prima vista, non cambiarono più di tanto. Continuavamo a girare per il parco, a chiacchierare di tutto e di niente. Ma i nostri sguardi facevano discorsi tutti loro e ogni angolo lontano dagli sguardi della gente era un invito irrinunciabile a baci sempre più appassionati.

E finalmente arrivò il giorno in cui avremmo dormito insieme. I suoi erano partiti per un week-end e i miei, anche se un po’ preoccupati, non fecero troppe storie. Mi accompagnarono nel quartiere di Farid, cui fecero mille raccomandazioni. Facemmo un piccolo giro, ci mangiammo un gelato, poi, sfiniti dall’attesa, andammo a casa sua.
Mi aiutò a spogliarmi con lentezza, quasi con sacralità. Mi fece stendere sul letto. Poi si spogliò, lentamente, e si stese accanto a me, supino. Non si chinò su di me a baciarmi, come mi sarei aspettato. Mi lanciò uno sguardo: voleva che fossi io a farlo, sapeva che lo potevo fare. Il suo amore non offriva soltanto, era capace di pretendere. E questo mi piaceva.
Feci forza sulle mie braccia per girarmi, poi, sudando per la fatica, mi puntellai sui gomiti per sollevarmi e raggiungere la sua bocca. Fu un bacio lunghissimo. Stremante. Mi accasciai sul suo petto. E sentii il battito del suo cuore.
Mi sentii morire.
“Hai un cuore solo” lo accusai.
“Sì”.
“I tuoi non sono mai stati in Salento, vero?”.
“Mai stati a sud di Firenze”.

Mi aveva mentito, mi aveva tradito. Non era stato il destino a farci incontrare. Non era stato il destino, ma le persone, con il loro mondo a misura di abile, a rendermi costantemente inadeguato. Non era stato il destino, ma la mafia a costruire con la sabbia la piscina per le acque della centrale, con le istituzioni che facevano finta di controllare. Non era stato il destino, ma il popolo italiano a far mancare il quorum per dire addio alla follia nucleare. E l’acqua cattiva non era cattiva, era solo acqua su cui qualcuno aveva mentito, che qualcuno aveva tradito.
Chiusi gli occhi. Pensai a Farid e al suo unico cuore che batteva forte sotto il mio orecchio. Non me lo aveva mandato il destino, la nostra storia non era già stata scritta dall’origine dei tempi. Dipendeva da una scelta. Una misera, umana, banalissima scelta.
Chiusi gli occhi e gli dissi, con le lacrime che iniziavano a sgorgare: “Stringimi forte, non lasciarmi solo”.

Pier Cesare Notaro
©2011 Il Grande Colibrì
immagine: elaborazione da Takmeomeo (CC0)

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