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Potrà forse apparire scontato, ma essere attivisti per i diritti LGBTQ* in paesi omofobici per legge o per tradizione è ancor più difficile che portarsi dietro il semplice “marchio” di omosessuale. E non sempre c’è bisogno dell’autorità costituita per mettere a repentaglio la vita di chi si batte in nome dell’uguaglianza degli esseri umani, indipendentemente dalla loro identità di genere o delle loro preferenze sessuali.

Accade in Camerun, dove Alice Nkom, avvocata specializzata nella difesa dei diritti umani e quindi impegnata anche professionalmente a favore della comunità LGBT, riceve da una settimana minacce di morte con telefonate e sms che, insultandola, l’avvisano di guardarsi alle spalle, in particolare oggi, quando parteciperà ad un pubblico dibattito sull’omosessualità in un hôtel di Yaoundé (237online). A queste minacce Alice Nkom, pur essendo spaventata, non intende cedere.

Ma le minacce non possono essere prese alla leggera: è ancora vivo il ricordo dell’attivista David Kato, ucciso in Uganda il 26 gennaio dello scorso anno, che viene ricordato oggi con un articolo della sua amica e collega Naome Ruzindana (The Indipendent).

E proprio dall’Uganda le voci di odio contro gli omosessuali continuano a levarsi, anche se per la prima volta c’è una piccolissima buona notizia: la Victoria University, a Kampala, ha diramato un comunicato di scuse per aver ospitato l’autore di un articolo sulla edizione locale di Rolling Stone che invitava ad “impiccare i gay“, pubblicato proprio pochi mesi prima dell’omicidio di David Kato. Benché l’autore dell’articolo, Giles Muhame, abbia ritrattato le sue dichiarazioni, ai vertici universitari l’invito a farlo parlare dev’essere sembrato eccessivo ed hanno pensato che fosse opportuna una presa di distanza (O-blog-dee-o-blog-da).

In altri casi ci pensa la legge, che in Africa è quasi ovunque omofobica (Il grande colibrì), a mettere paura o peggio… Come si prevedeva, in Senegal è infatti arrivata la condanna per il giornalista Tamsir Jupiter Ndiaye, che è stato condannato a quattro anni di carcere duro per atti contro natura (Senego), sebbene il suo avvocato Me Khassimou Touré consideri la condanna frutto del grande clamore che la notizia ha avuto in tutto il paese ed abbia perciò annunciato che ricorrerà in appello: “Vi dico che in secondo grado questa decisione sarà spazzata via, perché non ha alcun fondamento legale” (Leral.net).

Naturalmente non occorre essere attivisti per finire in carcere. In Arabia Saudita sono stati arrestati alcuni giorni fa cinque gay in una sauna della capitale, Riyadh, sorpresi in possesso di alcuni preservativi, parte dei quali contenenti sperma. La notizia farebbe sorridere (che prova sarebbe di un rapporto omosessuale un preservativo usato? e cos’altro dovrebbe contenere se non liquido seminale?) se non fosse che in Arabia questi sospetti gay, in assenza di leggi definite sull’argomento, rischiano dalla “semplice” condanna alla frusta fino alla pena di morte (خبر).

Poi, certo, non occorre essere in un paese con leggi o tradizioni omofobiche per correre dei rischi. Si possono subire violenze anche in Italia. Oppure si possono subire minacce anche in Brasile, dove quindici attivisti nella città di Curitiba ricevono costanti minacce di morte unicamente per il loro impegno a favore della comunità LGBTQ*. Fortunatamente qui, perlomeno, la cosa può essere denunciata alla polizia, che sta indagando ed ha già scoperto che tutte le telefonate minatorie partono da telefoni pubblici (Bonde).

 

Michele
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RASSEGNA STAMPA
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