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Una donna ipnotica, elegante, divertente, con forti idee personali e un’entrata scenica che ricorda quella di Aretha Franklin, alla cerimonia dei Kennedy Center Honors, con la sua pelliccia e la faccia di chi sa. Ci ha tenuto sospesi Lucy, con le sue parole, e si è presa tutta la nostra attenzione. Certo, il motivo della mia presenza all’evento organizzato dal gruppo Trans Bologna all’Autospazio di viale Pepoli 62 per il Giorno della Memoria, non è quello di un concerto, ma ascoltare le parole di chi ha vissuto in prima persona un campo di concentramento.

Davanti a me un secolo di vita. Lei stessa, Lucy, è la prima a meravigliarsi di ciò e a riderci sopra: “Adesso c’ho 93 anni. È spaventoso. È spaventoso pensare di avere 93 anni. È spaventoso, sì, perché non me li sento… Ah, che tristezza! Però si vive lo stesso!”. Lucy è stata una delle prime trans italiane a operarsi a Londra negli anni ’60 e una delle pochissime a raccontare l’esperienza del fascismo, la guerra e la deportazione nel campo di concentramento di Dachau, avvenuta dal novembre del 1944 al maggio del 1945.

La vita prima della guerra

Lucy è nata a Fossano, provincia di Cuneo, nel 1924, come Luciano. “Io mi sono sempre sentita femmina – ci racconta Lucy – fin da piccola. Mia madre era disperata. Volevo sempre fare ciò che a quell’età facevano le bambine: cucinare, pulire e giocare con le bambole. Ah, le bambole… E cosa ci posso fare? Mi sentivo una bambina in tutto”. Durante la sua adolescenza i genitori si trasferirono nel bolognese e a Bologna Lucy trovò una sua dimensione, con i suoi amici omosessuali. E di quella prima vita bolognese, un po’ avventurosa, Lucy ci ritaglia qualche piccolo aneddoto divertente e qualche poesia.

“Lo posso dire? – Lucy si interroga e guarda qualcuno nel pubblico – Si faceva un po’ di marchette. Si guadagnava 50, 60mila lire e si andava all’Albergo Bologna. Ci si trovava con i miei amici al Bar Centrale o vicino alla cattedrale e ci si raccontava. Si viveva così. Ma io non ho mai cercato nessuno, erano gli altri che venivano da me. Mi facevano l’occhiolino e mi chiedevano quanto volessi. Che poi si andava pure con loro, con i tedeschi, proprio loro. Pagavano per venire con me. Non mi regalavano di certo i soldi. Che poi i tedeschi sono boni tutti, boni tutti. Battevamo lì al Bar Centrale. Lì era il ritrovo. Sì vedeva quello che eravamo. Truccati, un po’ così…”. “Favolose”, dice qualcuno dal pubblico.

“Io non ho mai acchiappato nessuno. Io non mi muovevo, erano loro che venivano da me. Ho sempre trovato senza muovermi. Stavo lì seduta e loro mi facevano il gesto di seguirli. All’epoca mi chiamavano Carmela. Perché mi chiamavano Carmela? Perché quando arrivai a Bologna ero una contadinaccia. Sono Nata a Fossano, con tanto di nome e mia madre mi ha chiamato Luciano. Dunque mi chiamo Luciano che significa luce e culo e sono nata a Fossano che vuol dire buco del culo. Perciò non potevo che essere solo un culo”. Lucy si trascina la platea. È sua. Se la ride bene.

La guerra e la scelta di Lucy

“Non mi aspettavo la guerra. Quando uno è giovane, non è che pensi tanto a quello che potrebbe venire. Sono stata chiamata. Mi è arrivata la cartolina, ma non me l’aspettavo così presto. Mi chiamarono a 19 anni e mi mandarono al nord. E lì ho incominciato a fare il militare. È stata dura. Io ho detto quello che ero, ma non ci hanno creduto. Ho detto: sono omosessuale. E loro: ‘Eh sì, dicono tutti così, vai, vai…’. Non mi hanno creduto! Ma è durato poco”.

“L’8 settembre si è disfatto l’esercito e tutti cercarono di ritornare a casa, ognuno come poteva. Dalla provincia di Udine me ne ritornai a piedi fino a Bologna. I miei genitori erano sfollati a Mirandola per via dei bombardamenti. Stetti poco a Mirandola, perché i miei genitori temevano che mi prendessero e allora mi mandarono dal fratello di mio padre in campagna. Credevo di essere al sicuro da mio zio. Dopo 15 giorni arrivarono sia i fascisti che i tedeschi. Io mi nascondevo con un altro ragazzo, ma non lo conoscevo. Ci hanno fermati e messi in galera e ci hanno interrogati. Per ogni risposta che loro consideravano errata, noi ricevevamo botte! Quel poveraccio l’hanno preso a mazzate. Per quel che mi riguarda, ho detto a ogni modo che cos’ero”.

E qui arrivò la scelta di Lucy. “Mi dissero: ‘O vai con i tedeschi o con i fascisti’. Io non volevo né l’uno né l’altro. Con i fascisti non ci vado di sicuro, mio padre è stato tre anni al confino per via dei fascisti. Perciò siamo andati con i tedeschi. I tedeschi ci insegnarono a colpire gli aerei, ma non mi andava di stare con i tedeschi, e allora mi butto nell’acqua gelida e mi prendo una bella bronchite. Mi ricoverano in ospedale e taglio la corda. Oltre la fuga dall’esercito italiano, la fuga dall’ospedale e la fuga dai tedeschi… insomma, mi sentivo braccata. Ero un disertore. E cosa potevo fare? Vivevo di espedienti. Facevo la marchetta”.

Una vita da fuggiasca

“Una volta arrivò un tedesco. Andammo all’Albergo Bologna. Una bella cifra, 50-60mila lire. Il tempo di salire sopra e arrivò una squadra. A lui gli dissero ‘scappa!’ e a me mi bloccarono. E cosa potevo fare ? Hanno capito chi ero, che ero a Suviana e che ero un disertore. In attesa di essere processata, mi portarono in una cantina di un palazzo di Padova. Mi sono accorta che la serratura era difettosa e riuscii a scappare durante la notte, ancora una volta. Ma dove potevo andare? Dopo un po’ mi riarrestarono. È stata una tragedia. Mi hanno portato direttamente in galera. Mi hanno processato e mi hanno condannato a morte. Mi portarono alle carceri di Modena. Ho chiesto la grazia a Kesserling che me l’ha concessa, però mi portarono in Germania”.

“Inizialmente mi portarono in carcere e poi in un campo di lavoro. Lavoravo in una fabbrica dove facevo pezzi di bombe. Ma ero un fuggiasco, sì, e scappai di nuovo, con un amico. Volevamo ritornare in Italia e avevamo preso un treno, ma era il treno sbagliato e invece di ritornare in Italia ci siamo ritrovati a Berlino. Non sapevamo dove andare. Poveri noi! Sapevamo che stava per partire un treno per Innsbruck. Abbiamo fatto una fatica bestiale, ma riuscimmo ad arrivare fino a Innsbruck. Qui dormivamo dentro a una capanna. Morivamo di fame ed era inverno. Un freddo boia”. Si ferma Lucy. Respira. E un silenzio avvolge l’intera sala.

‘’Quello che abbiamo passato… non lo auguro a nessuno! A un certo punto ci trovarono, eravamo in stazione e il mio amico mi disse: ‘Lucy, io corro, scappo via’. Io gli dicevo: ‘No, non farlo, non farlo’. Lui è sceso dal treno e si è messo a correre. I militari l’hanno inseguito e gli hanno sparato. Lì. Morto. Lo hanno lasciato lì, nessuno si è curato di andarlo a vedere”.

L’inferno è una passeggiata

“E mi sono ritrovata nel campo di Dachau. L’orrore, la disperazione, la fame, l’annientamento, l’umiliazione, la detenzione, il disgusto. Speravo tanto che ci bombardassero, per mettere fine a tutto questo. Appena arrivati ci hanno denudati, pelati e disinfettati, dicevano loro. Disinfettati con la creolina, la pelle se ne veniva via così. Se avevi un po’ di carne addosso vivevi, altrimenti partivi già condannato. Noi non avevamo più un nome, ma solo un numero. Nel campo lavoravo. Ci ho passato sei mesi. Ormai era la fine, mi era incominciata a venire la dissenteria e quando ti veniva la dissenteria, morivi”.

“Quello che ho visto nel campo è stato spaventoso. L’inferno di Dante a confronto è una passeggiata. Impiccati. Gente che moriva per la strada. Persone che erano solo pelle e ossa. Facevano gli esperimenti. Bruciavano i morti e c’era chi era ancora vivo, che si muoveva fra le fiamme. Terribile, terribile. La mattina quando ti alzavi e volgevi il tuo sguardo intorno alla recinzione elettrificata, trovavi un mucchio di ragazzi attaccati. Vedevi le fiammelle uscire dai corpi di questi ragazzi. L’odore”.

“C’era poi un ragazzo olandese, che poverino non riusciva più a vivere così… Non c’è l’ha fatta e si è gettato contro la recinzione… Folgorato, incenerito. Eravamo come dei robot, non avevamo più volontà, non avevamo più sorriso, ma solo disgusto. Vivevi nel terrore e nell’orrore. Non avevi tempo di socializzare, non potevi, non potevi… Non avevamo più argomenti. Eravamo in mezzo ad altra gente e sentivi solo: ‘È finita? È finita? Ti prego, hai un pezzo di pane in più?'”.

“A ogni modo, questo è successo: arrivarono gli americani e ci liberarono. Radunarono tutti i tedeschi in un recinto. Gli americani ci dissero: ‘Se qualcuno vuole favorire di ammazzarne qualcuno, ecco la pistola’. Mi rifiutai! Perché devo sparare a loro? Io non lo farei mai! Ma c’è chi accettò. Ero ormai un cadavere. Che umiliazione”.

Ricostruirsi una vita dopo Dachau

“E così ritornai a casa, in Italia. Quando mia madre mi vede, svenne. Mi credeva morto, fucilato. È stata una bella festa, eh sì. E quando ci penso ancora oggi – dice Lucy con voce commossa – non so proprio come ho fatto a sopravvivere a tutto questo. È stata una tortura”. Lucy si ferma. Ricordare ha certamente peso. “Mi hanno rubato gli anni migliori. Hanno rovinato la mia carne. [Le spararono alla gamba, ndr], la mia anima, la mia vita. Adesso, quando sogno mi viene una strana, terribile sensazione… Non riesco più a dormire. Mah, purtroppo è andata e sono qui a raccontarvi le mie tragedie. Scusate”.

“Nessuno voleva sapere al mio ritorno.Nessuno mai mi chiese cosa mi fosse accaduto a Dachau. Siamo stati dimenticati. Alla gente non fregava niente. Non voleva sapere, non voleva sapere.’’

“A Torino ho vissuto dei momenti stupendi. Facevo il tappezziere. Andavo per locali. Stavo bene. Ero amata. Avevo amici. Mi sono divertita tanto a Torino. Prima stavo con uno, poi con l’altro e così via… ma sempre con uno solo. Io voglio bene a uno, anche se andavo con gli altri”. Ride Lucy, sa di essere una persona divertente, conosce la forza del riso. E abbiamo riso tutti insieme.

Un compito all’apparenza facile

Ho vissuto la storia di Lucy più di una volta ieri sera dal vivo, e più di una volta riascoltando la registrazione della serata. Ho riso e ho pianto. Lucy non è un caso isolato. È una donna forte che ha avuto il coraggio di parlare, di non tacere davanti all’indifferenza di tutti noi. Ha lavorato, ha amato, ha perso, ha vinto, una fuggiasca professionista, una cabarettista. Lucy reclama il suo tempo rubato, che tortura tutto quel tempo e tutto quell’annientamento. Ci ha regalato in un paio di ore la sua vita e si è calata dentro quella vita con un’intrepida verità, come se non ci fosse nessuno ad ascoltarla.

Contro tutte queste parole, contro tutte quelle vite, contro tutte le testimonianze non raccontate qualcuno andrà a sbattere a braccia conserte, negando ogni evidenza, negando ogni parola. “Fantasie, fantasie”, diranno. Il nostro compito però, pare semplice: ricordare! Ci riusciremo?

Anes
©2018 Il Grande Colibrì

 

One Comment

  • Mauro ha detto:

    Un articolo ben scritto, una testimonianza nuova, da non perdere. Bisogna correggere alcuni errori ortografici in questo articolo, perché si merita di essere pubblicato molte e molte volte.

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