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Per Ludovic-Mohamed Zahed, l’imam algerino dichiaratamente omosessuale che a Parigi ha fondato la prima moschea inclusiva d’Europa, ripercorrere in pubblico la propria storia è spossante, significa rivivere grandi traumi e battaglie difficili. E’ visibilmente stanco, mentre beviamo qualcosa prima di andare a dormire, ma ci assicura che è molto soddisfatto. Per la prima volta ha raccontato la propria vita e le proprie idee in Italia, in due incontri che Il grande colibrì ha organizzato a Genova (con il Festival Suq e il circolo Arcigay Approdo) e a Milano (con la Casa dei diritti, Il guado, Le rose di Gertrude e Renzo e Lucio). In queste settimane, vi proporremo la traduzione in italiano degli interventi che ha fatto nel capoluogo lombardo: oggi partiamo dal racconto del suo percorso umano, psicologico e politico.

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Nasco in Algeria nel 1977 e cresco tra l’Algeria e la Francia, a Parigi. In Algeria studio teologia per cinque anni, per diventare imam: la maggior parte dei miei compagni di studio diventeranno imam. A 17 anni scopro che quello che provo si chiama “omosessualità” e mi rendo conto di aver represso durante gli anni dell’adolescenza tutti i desideri e i sentimenti che provavo nei confronti di altre persone del mio stesso sesso.

Per quindici giorni tutte queste rappresentazioni mentali mi tornano alla memoria, poco a poco, una alla volta: mi sto incamminando verso la moschea e ecco che all’improvviso mi torna in mente un sogno omoerotico che ho fatto tre anni prima; sto lavando i piatti o sono in bagno ed ecco che all’improvviso mi torna in mente un sentimento che ho provato per un compagno della madrasa (scuola islamica).

E’ il 1995, in Algeria c’è la guerra civile da molti anni, e inizio a prendere le distanze dal salafismo: quando cinque anni prima ho iniziato a studiare teologia non avrei mai detto che sarebbe stato quello l’islam che mi avrebbero insegnato. Ma sono gli anni Novanta e se vai in moschea in Algeria devi scegliere: da una parte ci sono i salafiti, ispirati dal wahabismo saudita, e dall’altra i Fratelli musulmani, di ispirazione egiziana.

Nel 1995, quando scopro di essere omosessuale, lascio l’Algeria, in cui non tornerò quasi mai più in seguito, e mi trasferisco definitivamente in Francia: è la fine del mio legame con questa interpretazione religiosa molto dogmatica dell’islam.

Mi devo adattare ad una Francia sempre più in preda a rappresentazioni razziste e islamofobiche. Intanto inizio a studiare psicologia all’università per capire come ho fatto a rinnegare una parte così importante della mia identità, come la sessualità e l’amore. All’inizio del mio processo di riadattamento in Francia, passo due anni a combattere contro me stesso, contro la mia spiritualità, contro la mia sessualità. Sono ad un passo dal suicidio e dalla depressione. Ed allora mi dico: “Devi abbandonare la tua spiritualità, perché non potrai conciliarla con la tua sessualità”.

A quell’epoca alla maggior parte delle persone viene proposta questa scelta: devi ammettere che l’omosessualità è una perversione e uno squilibrio oppure devi ammettere che l’essenza dell’islam è quella di una religione omofobica, misogina, razzista e antisemita. Io non sono in grado di scegliere. E scelgo così di amputarmi della spiritualità, come ci si amputerebbe di un braccio. Mi costringo a non pregare più, a non fare più il Ramadan, a non leggere più il Corano che ho imparato a memoria in arabo. Cerco invece di diventare l’archetipo dell’omosessuale, passando da un estremo all’altro.

Trascorrono vari anni in questo modo. Ho 27 anni, lavoro e studio allo stesso tempo: non è facile, ma ci riesco. Ho un appartamento nella regione parigina. Insomma, dovrei avere tutto per essere felice. Eppure – me lo ricordo ancora – sono sul divano di casa mia e parlo al telefono con mia sorella e le dico: “Se questa è la vita, io non sono infelice. Però non sono neppure felice”. Questa è la mia situazione a 27 anni.

Non per tutti la spiritualità è una necessità, almeno non nella forma della tradizione arabo-musulmana, ma io provengo dalla cultura dalla quale provengo e nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di vietarti di intraprendere una ricerca spirituale, filosofica e metafisica. In quel periodo non posso ancora tornare all’islam, perché per me il trauma è troppo grande, ma mi interesso al buddismo e alla meditazione per ridurre il mio stress. Faccio persino un pellegrinaggio in Tibet, nel 2003; lì, in un tempio, i monaci mi dicono che le donne non sono sullo stesso piano degli uomini e che l’omosessualità è uno squilibrio, una perversione.

Tutto questo mi sembra molto “islamico”, molto patriarcale, molto assimilabile alla religione che ho conosciuto in Algeria negli anni Novanta. Capisco che anche il buddismo può essere strumentalizzato per fini politici, fascistizzanti e totalitari, che anche questa religione associata alla pace universale e alla volontà di includere tutti può essere snaturata. E allora mi dico – anche se può sembrare un po’ arrogante – che darò un’ultima chance all’islam, perché dieci anni prima per me era una questione di sopravvivenza. Mi dico anche che non vale la pena cercare altrove, perché ci sono gli stessi problemi dappertutto. E così decido di riappropriarmi dell’islam, di quello che ho appreso durante la mia adolescenza, di quello che mi ha tanto appassionato.

Il buddismo mi ha spinto a riappropriarmi dell’islam perché mi ha fatto capire, da un lato, che abbiamo gli stessi problemi dappertutto e che dobbiamo affrontarli insieme e, dall’altro, che possiamo e soprattutto dobbiamo separare la religione come struttura politica, dogmatica, ideologica, fascista e totalitaria dalla religione come realtà spirituale, universale, inclusiva e umanista.

In quel periodo lavoro con un’associazione che si occupa di bambini HIV-positivi, anche perché conosco la problematica molto bene e personalmente, dal momento che sono stato contagiato ormai vent’anni fa. Insomma, viaggio molto, anche in molti paesi arabi e musulmani (l’Iran, il Pakistan, quelli dell’Africa settentrionale…), e riscopro l’islam da un punto di vista più culturale: in parole povere, è l’islam più pacifico presente in società che non sono in guerra civile come l’Algeria.

Nel 2010 torno in Francia e fondo l’associazione degli Omosessuali musulmani di Francia (HM2F), che oggi ha sedi in diverse città francesi e legami, attraverso la Confederazione delle associazioni LGBTQI euro-africane musulmane (CALEM), con altre associazioni in Europa. Con il passare degli anni, a forza di aiutare persone omosessuali e transessuali a vivere la propria sessualità in pace e di discutere insieme i problemi, all’interno dell’associazione emerge l’elemento spirituale: sempre più persone ci chiedono di organizzare incontri di preghiera, incontri per il Ramadan, eccetera.

Verranno anche coppie eterosessuali a chiederci di sposarle, dicendoci che, secondo loro, noi siamo il “vero islam”. E’ una definizione gentile, ma, secondo me, l’islam non esiste da un punto di vista sociologico: ci sono solamente delle persone musulmane che devono decidere individualmente che cosa sia per loro la spiritualità. Per me la questione non è appropriarsi, come fanno certi imam, del potere di dire cosa sia l’islam e cosa i musulmani debbano o non debbano fare.

Come associazione ci prendiamo un anno di tempo per discutere e riflettere sulla difficile e pericolosa questione di come poter organizzare una comunità con una moschea che sia inclusiva, cioè che accolga tutti, indipendentemente da origini etniche, orientamento sessuale, genere, eccetera, e che non sia proprietà di nessun imam. Io, anche se sono il fondatore di questa moschea, dico sin dall’inizio che ciascuna persona che faccia parte della comunità ha conoscenze che possono essere messe al servizio di tutta la comunità.

Ricordo che l’islam non ha un clero organizzato e centralizzato – e questa è al tempo stesso una fortuna e una sfortuna. Per secoli è stata una fortuna, perché ha significato tolleranza, libertà di pensiero, filosofia… Però, a partire dal crollo del mondo arabo-musulmano e dell’impero ottomano in particolare, dopo la prima guerra mondiale, questa libertà ha aperto le porte agli estremisti peggiori, che si sono appropriati dell’islam a fini nazionalistici e politici.

Dunque, nel 2010 fondo l’associazione HM2F, nel 2012 la moschea inclusiva e l’associazione dei Musulmani progressisti di Francia (MPF). Poi l’anno scorso lanciamo con altre associazioni LGBT musulmane un centro per formare ogni anno sei persone, donne e uomini, come imam progressisti. Nel frattempo, termino un dottorato in psicologia su islam e omosessualità e un dottorato in antropologia sull’emergere delle minoranze sessuali all’interno dell’islam, studiandolo come cultura e religione non solamente in Africa del nord e Medio Oriente, ma anche nelle diaspore musulmane in Europa e in America del nord.

 

Leggi tutta la serie di interventi di Ludovic-Mohamed Zahed

 

Ludovic-Mohamed Zahed, imam, psicologo e antropologo
traduzione di Pier
©2015 Il Grande Colibrì

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