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Prima di partire per il Sudafrica, la mia vita era un insieme di pensieri, sensazioni, domande. Non sapevo niente di me e al contempo sapevo tutto. Mi ero ridotta a uno stupido essere umano che ascoltava musica triste a volume massimo con le cuffie nelle orecchie mentre mangiava, studiava, dormiva, giocava. Le mie palpebre si era abituate così tanto a stare abbassate, con lo sguardo fisso sul terreno, che quando le aprivo bene, quasi sentivo un lieve dolore. Come quando stai così tanto al telefono che il braccio sembra si congeli in quella posizione.

Stavo provando, forse per la prima volta, qualcosa per una ragazza, un’amica che sapevo non lo sarebbe stata più di lì a poco, perché il mio comportamento faceva di tutto per allontanarla da me. (Per la prima volta, sì, ma non era la prima volta che pensavo di essere “differente” da quello che vedevo in giro fin da piccola). Alla fine riuscii ad allontanare questa ragazza, perché non riuscivo più a parlarle e il mio atteggiamento l’aveva portata a pensare che non la considerassi più una persona piacevole con cui stare.

Terminò la scuola, ma il fine settimana, in discoteca, c’era sempre lei, la mia amica che non avevo più, quella persona che non sapevo nemmeno io cosa fosse stata per me, se un’amica, una sorella, un amore mai pronunciato. C’era lei e io bevevo, per avere un altro stato d’animo, per riuscire a ridere e a scherzare. Per riuscire a non pensare e a vedere in lei solo il bello che c’era stato nella nostra amicizia. Era meglio, almeno in quel momento di leggera ubriachezza, non ricordarmi le notti insonni, passate a piangere strozzando i rumori della mia sofferenza.

Durante l’anno scolastico non dormivo mai, appena pensavo che sarei andata a letto cominciavano le palpitazioni, il sudore, la stanchezza che faceva a botte con l’ansia, e più sentivo il bisogno di dormire e più non dormivo. Tutto questo perché la mattina seguente mi sarei seduta, come tutte le mattine, accanto a lei, senza sapere più cosa dirle, facendo la sciocca.

Ovviamente il problema non era avere accanto una persona di cui essersi presi una cotta e restare imbarazzati per cinque ore di seguito. Era molto di più, ancora non so nemmeno io spiegarlo. Ma era molto di più, e questa situazione mi logorava. Era un punto interrogativo di una vita che non capivo, di un rapporto che non sapevo come chiamare né gestire, di un insieme di stati d’animo che non sapevo a chi raccontare nonostante gli amici intorno.

​Sulla costruzione sociale del rifiuto

Poi, nel bel mezzo di quelle bevute estive in discoteca, parto. Parto per un viaggio che non so nemmeno perché mio padre mi stesse regalando. Parto verso la terra più a sud del continente africano, parto per respirare aria nuova, aria buona. Quando ero piccola dicevo alla mia mamma che sognavo di andare in Africa. Chissà perché. E che quando – non lo credevo possibile all’ora – avessi messo piede sul continente africano sarei stata la persona più felice del mondo.

E lo sono stata.

Il 21 luglio 2010, senza nemmeno farlo apposta il giorno del compleanno della ragazza per cui la mia vita si era dovuta per forza confrontare con la realtà, presi un aereo che dopo 14 ore mi scaricò a Johannesburg, destinazione Pretoria. Sudafrica. Avevo 17 anni, era il mio primo viaggio in aereo. Era la mia vita che respirava la felicità. Ero sola, con il mio orsacchiotto e un quaderno dove scrivere la sera quello che di bello avevo visto il giorno. Non ero ancora iscritta a Facebook, non avevo internet nel telefono, non avevo il PC. Avevo deciso io di sconnettermi con quello che mi avrebbe potuto riportare a quello che avevo vissuto in Italia.

Decisi di iscrivermi in una scuola superiore (lì era inverno, quindi l’anno scolastico era in corso). La struttura delle lezioni è diversa dalla nostra, la scuola è organizzata sul modello anglosassone: per ogni materia ci si deve spostare in una classe diversa, per cui si ha modo di incontrare sempre gente nuova. Solo appena arrivati in aula, per i primi 10 minuti in cui si fa l’appello, si ha una classe di riferimento a cui si appartiene.

Già il primo giorno cominciai a vedere ragazzi e ragazze LGBTQ, ma solo dopo qualche giorno scoprii, parlando, che ce n’erano molti altri. Chi bisessuale, chi lesbica, chi gay, chi non si faceva problemi, chi siamo tutti amici!

Molti erano cattolici. Mi sorprese il loro modo di parlare della fede, la loro voglia di discuterne proprio nell’ora di pausa, scambiarsi idee e dibattere sulle questioni religiose avvicinandole alle problematiche del mondo attuale. Nell’ora di merenda e in pausa pranzo c’era chi mangiava all’aria aperta e chi si ritrovava in una stanza con la Bibbia (questi ragazzi avevano dai 16 ai 18 anni) e a turno ne parlavano, ne spiegavano gli insegnamenti e raccontavano momenti di vita.

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Un giorno, decisi di partecipare ad uno di questi incontri e mi piacque moltissimo. Partecipai grazie ad una ragazza con cui a volte andavo a scuola a piedi. Una ragazza etero e cattolica che aveva capito il mio orientamento sessuale (anche perché tra amici parlavano di me, “la ragazza italiana”), ma non aveva ancora chiaro che l’anno seguente non sarei stata con loro (sarei tornata in Italia) e mi disse: “Il prossimo anno, nella classe principale, ti voglio come compagna di banco”.

La mia vita stava cambiando. Avevo trovato un piccolo mondo in cui tutti parlavano dell’omosessualità e tutti si volevano bene e si accettavano – ovviamente con i paraocchi dell’epoca e la poca conoscenza del luogo. Un giorno, avendomi già capita, mi chiesero: “Quale cantante ti piace di più fisicamente?”. Mi vergognai troppo, non mi sembrava possibile che una persona mi avesse chiesto una cosa così. Risposi imbarazzata: “A me non piacciono le star, cioè non è che mi piacciono le donne della TV”. La ragazza annuì, forse pensava che non sapessi l’inglese o semplicemente che fossi scema. Ancora non riuscivo ad accettare (non saprei se è davvero la parola giusta per descrivere cosa pensavo) che poteva piacermi un corpo femminile.

Giorno dopo giorno, tra la compagnia e gli sguardi di quelle ragazze e di quei ragazzi, neri e bianchi, “africani”, discendenti dei boeri, figli di famiglie immigrate, insomma nella moltitudine di colori e origini che rendono unico il Sudafrica, io stavo sorridendo dopo tanta sofferenza. Loro, persone che se anche le avessi volute rivedere ci sarebbero voluti anni, mi stavano aiutando a capire e guardare le cose diversamente, a togliere le nebbie che avevo avuto nella mente. Dal giorno in cui, tra i banchi di scuola, una ragazza mi passò un bigliettino con su scritto “Mi piaci voi” (il traduttore automatico che aveva usato per tradurre “you” non aveva fatto un buon lavoro), mi sentii parte di tutte quelle persone che amano senza problemi, che vivono la loro vita essendo coscienti che non c’è niente di sbagliato.

Non sapevo niente del Sudafrica riguardo alle persone LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali), alle leggi in merito, alla tanta discriminazione (pensate per esempio agli stupri correttivi ai danni delle lesbiche) in un paese che, legislativamente parlando, è molto avanti rispetto a tanti paesi europei.

Quello era il mio momento di vita, e mi sembrava solo un paradiso, un pezzo di paradiso nell’estremo sud di quel continente così enorme quanto discriminato, sfruttato, eviscerato dalla sua ricchezza. Proprio lì, tra quella terra rossa, delle persone sconosciute mi fecero ricominciare a sorridere. Capii che il mondo è grandissimo, ma che le distanze possono accorciarsi se le rivestiamo di amore, che nessuno è diverso, non importa di che religione tu sia, che colore abbia la tua pelle o che orientamento sessuale tu abbia. Atei, cristiani, musulmani, neri, bianchi, etero, bisessuali, c’era chi era di madrelingua inglese, chi afrikaans, chi di lingue indigene: tutti mi hanno voluto bene e io li porto ancora nel cuore. Siamo tutti uguali quando ci prendiamo cura dello stesso seme, quello dell’amore.

 

Ginevra
©2017 Il Grande Colibrì

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