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Sembra banale. Se leggiamo su un giornale un articolo in cui si parla di “una ragazzo” o di “un studentessa” rabbrividiamo dall’orrore e rimpiangiamo i bei tempi in cui la crisi era lontana e nella stampa esisteva ancora la figura del correttore di bozze. Sono errori banali, non si dovrebbero fare, non sono considerati tollerabili.

E invece banale non è, quando si parla di persone transgender: negli articoli, nei servizi radiofonici e televisivi, anche nelle conversazioni, sono spesso definite con il genere sbagliato e nei confronti di questo genere di errori la nostra tolleranza (pari forse solo alla nostra disattenzione, quando non alla nostra ignoranza) cresce in modo esponenziale. Eppure, con un minimo di logica, non è difficile arrivarci. La persona transessuale che, nata in corpo maschile, si sente donna ha diritto al genere femminile e così la persona nata in corpo femminile che si sente uomo ha diritto al genere maschile.

Tuttavia basta scorrere i giornali di questi giorni sul caso Marrazzo per accorgersi che questo semplice ragionamento non trova alcuna eco nelle redazioni: per Libero, che riprende un dispaccio dell’AdnKronos, per Il Giornale, per La Repubblica, per il Corriere della Sera e per praticamente tutti i quotidiani online è normale accostare un nome femminile ad un articolo maschile (il trans Brenda, il trans Natalie), perché specificare costa fatica, documentazione e rispetto. Ed è noto che le persone transessuali il rispetto proprio non lo meritano, perché sono tutte dedite alla prostituzione. O almeno questa è l’immagine che danno i media.

Torniamo alla vicenda Marrazzo, che con la prostituzione ha avuto effettivamente a che fare: in tutti gli articoli riportati e anche nel titolo di quello pubblicato su Fanpage viene riportata la dichiarazione dell’ex presidente del Lazio, con tanto di virgolettato: “Mai portato i trans in Regione“. Nel caso specifico l’assimilazione può anche essere una necessità dettata dalle esigenze redazionali, ma è indice chiaro dell’assimilazione della transessualità alla prostituzione. Infatti che male potrebbe mai esserci nel portare una persona transgender in un edificio pubblico, se non per il fatto che la persona in questione fa qualcosa che la rende non idonea ad essere ospitata negli uffici regionali?

Del resto l’equazione “transessuale uguale prostituta” è una costante della stampa: lo vediamo in una notizia di un paio di giorni fa su La Nazione, in cui una donna è stata arrestata per aver “accompagnato un trans a prostituirsi” (l’accusa è infatti favoreggiamento della prostituzione), o in quella di appena un giorno prima in cui si annuncia che nel nuovo film di Sara Tommasi ci sono scene di sesso estremo “anche con trans” (Blitz quotidiano), ove sembra di capire che il fatto stesso di fare sesso con una persona transessuale  sia un episodio di sesso estremo, paragonabile ad una gang bang o al sadomasochismo.

Unica lodevole eccezione recente in cui la stampa ha trattato una persona transessuale senza accostarla alla prostituzione o ad una “perversione” è quella del funerale di don Gallo, in cui il salmo responsoriale è stato affidato ad una trans – ma anche qui, se l’articolo di Repubblica sembra rispettoso del genere della persona che, nata come Loris, è diventata Valentina, in realtà l’URL (l’indirizzo internet associato all’articolo) denuncia che questo rispetto è frutto di una correzione, visto che nel link compare l’articolo maschile.

Purtroppo un male comune è ben lungi dal diventare una buona notizia. La stampa inglese, come quella italiana, è sotto accusa (e non metaforicamente) per il suicidio dell’insegnante transessuale Lucy Meadows: il coroner ha infatti chiamato in causa i giornalisti che hanno causato il suo gesto (The Guardian). Particolare il riferimento all’articolo del Daily Mail in cui si parlava dell’insegnante e della sua transessualità commentando che la donna “non è solo nel corpo sbagliato, ma anche al lavoro sbagliato“, sottintendendo quindi che una persona transessuale non deve poter insegnare (anche se non era scritto che può solo prostituirsi), vecchio argomento usato anche nel nostro paese per i gay anni fa…

Forse i media della perfida Albione cambieranno il loro modo di rappresentare le persone transgender grazie ad un progetto finalizzato proprio ad una maggiore comprensione tra i professionisti della stampa e la comunità trans (All About Trans). O forse ci sarà solo un po’ più di attenzione, cercando di evitare altri estremismi dannosi per il mondo dell’informazione, come è purtroppo ragionevole pensare (Gay Star News).

Ma forse le cose cambieranno anche in Italia. A Siena, per esempio, è nato un protocollo tra il Movimento Pansessuale che lavora in Arcigay e le testate giornalistiche locali per il corretto trattamento delle informazioni al fine di evitare casi di omofobia e transfobia (Arcigay). Ed al rapporto tra transessualità e media ha dedicato la sua attenzione anche il festival internazionale bolognese di cinema trans Diver//genti, in trasferta a Napoli (Arcigay Napoli).

E se proprio la stampa non dovesse migliorare il proprio trattamento nei confronti delle persone transgender, ci penserà sicuramente SheZow (Hub), la supereroina australiana, protagonista di un cartone animato per bambini, che in realtà è un ragazzo di dodici anni che indossa panni femminili per salvare la città. Anche dalla stampa transfoba, naturalmente.

Pier Cesare Notaro
©2013 Il Grande Colibrì
foto: Skitterphoto (CC0)

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