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Sabato il Pride di Brescia ha accolto festosamente i cartelli del Grande Colibrì in cui, riprendendo il video realizzato per il 17 maggio [Il Grande Colibrì], dicevamo in 10 lingue “Sogno un mondo senza omofobia e transfobia”: tante foto, continue attestazioni di stima, frequenti applausi da parte di spezzoni interi del corteo. E la stessa accoglienza era stata riservata ai nostri volontari che hanno partecipato, con il cartello per il documentario “Allah Loves Equality” [Produzioni dal Basso], ai Pride di Arezzo e Roma. Anche sui social network siamo stati investiti da pollici alzati, cuori e bandiere rainbow. Abbiamo dato nuovi accenti e nuove parole alla manifestazione, abbiamo fatto apparire nuovi colori all’interno dell’arcobaleno. E però…

Però in corteo noi – persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali) appartenenti a minoranze etniche, nazionali e religiose e loro sostenitrici – non c’eravamo per apparire: c’eravamo per esserci. Non volevamo mostrare la pluralità del movimento: volevamo costruirla. Non volevamo solo la bidimensionalità delle fotografie, ma la tridimensionalità delle persone in carne ed ossa. In altre parole, volevamo piena cittadinanza al pari di qualsiasi altra persona nella manifestazione.

Quali uguaglianze difendere al Pride?

Proverò a spiegarmi meglio partendo da un fatto abbastanza marginale. Al passaggio della delegazione del Movimento 5 Stelle, non ho potuto fare a meno che gridare, insieme allo slogan “Diritti per tutti!”, anche tanti bei “Ius soli!”. Mi sarei sentito terribilmente ipocrita a pretendere uguaglianza dentro un Pride senza reclamarla davanti a chi, al di fuori del Pride, vorrebbe negarla.

Il gesto non è stato molto apprezzato: sui social network molti hanno ribadito, più o meno gentilmente, che si è trattato di una contestazione non opportuna e fuori contesto. Potrei liquidare queste critiche aggrappandomi al fatto che i Pride ricordano i moti di Stonewall, scatenati – almeno secondo la leggenda – da Sylvia Rivera, donna trans figlia di immigrati. Invece vorrei approfondire la questione con alcune domande.

Posso invocare l’uguaglianza in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale, chiudendo gli occhi sul mio vicino di corteo e sulla disuguaglianza che subisce in base al luogo di nascita suo o dei suoi genitori? Posso definire “privilegi” le garanzie da cui sono escluse le persone non eterosessuali e cisgender, mentre festeggio come “diritti” le tutele che includono le minoranze sessuali, ma non quelle etniche, nazionali e religiose? Posso continuare a ripetere che “i diritti LGBQIA sono diritti umani”, ma definire non pertinenti i diritti umani in una manifestazione come il Pride? Io rispondo “no” a tutte e tre le domande per non essere ipocrita e discriminatorio.

Lo “straniero” può essere politico?

I piccoli mugugni di fronte alla mia piccola contestazione, però, sono la parte più facilmente visibile di un più generale mancato riconoscimento nel movimento di uguale cittadinanza – o di cittadinanza tout court – per le persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali) appartenenti a minoranze etniche, nazionali e religiose.

Calando giù dalla punta dell’iceberg, ecco un fenomeno più invisibile, ma molto più significativo e diffuso: la presenza nostra e dei nostri cartelli si è risolta il più delle volte in un racconto superficiale e bidimensionale. I giornalisti e i commentatori sul web hanno parlato spesso volentieri dei nostri cartelli, a volte chiedendo anche di aggiungere elementi biografici esclusivamente intimi e privati, ma hanno ignorato sistematicamente e di fatto cancellato le nostre istanze pubbliche, le nostre attività collettive, il nostro progetto associativo.

Per fare l’esempio più evidente, il regista e attivista pachistano Wajahat Abbas Kazmi, con il suo cartello “Allah Loves Equality”, è stato uno dei partecipanti più fotografati degli ultimi Pride, ma quasi tutti i siti e i giornali hanno evitato di raccontare non solo il suo lavoro e la sua lunga militanza in Amnesty International e nel Grande Colibrì, ma addirittura il progetto di documentario [Il Grande Colibrì] che è alla base del cartello stesso. Non credo davvero che ci sia una volontà e neppure una consapevolezza dietro a tutto questo, ma di certo c’è un’incapacità generale di rappresentare e persino di concepire lo “straniero” come un soggetto politico.

Neppure un passo più indietro

Ma non per questo ci scoraggeremo: dopo Arezzo, Reggio Emilia, Roma e Brescia, saremo ancora ai Pride di Milano (nello spezzone di Nessuna Persona È Illegale; Facebook) e di Bologna a reclamare pari cittadinanza davanti alla legge, alla società e al movimento. E a riconoscerci a casa in alcuni percorsi favolosamente inclusivi, come quello che questa sera (mercoledì 21 marzo) vedrà migranti e italiani confrontarsi sul Pride in un incontro pubblico in piazza Oberdan a Milano dalle 19.45 [Facebook].

Avremo nuovi colori, parleremo nuove lingue, pregheremo o ignoreremo nuovi dei, racconteremo nuove esperienze e porteremo avanti nuove istanze, ma saremo con voi. Esattamente accanto a voi, neppure un passo più indietro. Con l’orgoglio di essere diversi e con la pretesa di essere uguali.

Pier
©2017 Il Grande Colibrì

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