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Quando entra in quella sala di attesa dello studio legale, Driss si schiaccia subito alla parete per poter stare all’angolo. Sembra un gatto randagio, con le ferite dei combattimenti di una vita sul viso – ma ancora la fiera regalità di un giovane.

Enta masri?” mi chiede.

No, non sono egiziano, ma tunisino“.

Ah” risponde quasi senza interesse, ma continua a guardarmi. Di lui ancora non so nulla, a parte che dovrò fargli da interprete nello studio legale dove ci troviamo, all’ottavo piano di via Marconi.

Da lì Bologna sembra una grande promessa. La nebbia fuori e la neve sui colli, e a sud i tetti color mattone ed i fumi dei camini: “una Parigi in minore”. Guardo dalla finestra; ci studiamo.

Aiutami per favore, Dio ti protegga” mi dice. È sull’attenti. Driss è salito con una giovane assistente sociale. Mi salutano entrambi, sorridono. Lei mi spiega che cosa dovrò fare: rispondere alle domande dell’avvocato.

Sono lì perché costretti a fare una causa perché il nome di Driss era stato scritto erroneamente sui documenti per il permesso di soggiorno. Serve un giudice per modificare l’errore. Un legale pagato in colletta, “di strada” come ho scoperto poi, ha commesso questo errore ai danni di Driss. Serve un processo per sistemare il nome sui documenti e questo è fissato per il venerdì seguente: si fa colloquio conoscitivo e preparativo all’udienza insieme. Per un senzatetto è una manna sufficientemente grassa.

Quando sei partito?” chiede l’avvocato.

Sono venuto nel ’98 – dice Driss – e sono salito sul camion, e la prima volta che sono sceso, dopo dodici ore di viaggio, era perché l’autista si era fermato per fare colazione. Ho visto i cartelli che indicavano Madrid e Barcellona. Allora sono risalito perché volevo andare in Italia“. Driss quasi strilla, è contento di far riaffiorare quei ricordi di giovinezza che lo rinvigoriscono.

E poi, quale è stata la prima città dove ti sei fermato?“. L’avvocato piano piano fa domande sempre un poco più difficili. Driss risponde, si impegna, si concentra, sta dietro alle parole mie e dell’avvocato, dell’assistente sociale. E gli viene il mal di testa. Perché in questi anni si è dato da fare, ha iniziato a bere, a prendere psicofarmaci. E ora ha problemi neurologici. Ha abbandonato una figlia per venire fino a qui, a diciotto anni, a cercare l’Italia: questo paese immerso nel mare di mezzo che sembra un ponte che si vuole attraccare all’Africa.

Sì, volevi venire qui Driss. Ma poi quanto tempo ci hai passato? Che cosa hai vinto qui? penso e mentre parlo, lo guardo. Sugli occhi la cataratta, una gamba rotta – “con i ferri dentro“, aggiunge. Non ci vedi quasi più.

E quando hai cominciato ad usare stupefacenti?” chiede l’avvocato, che lo guarda ma già sa. Driss ride nervosamente e l’avvocato lo riporta all’ordine: “Il giudice è buono, Driss, però devi essere serio, non devi ridere e devi essere preciso“. Perché su quelle carte che Driss a malapena sa leggere, ci sono tutte le risposte. Penso che questo fa parte dell'”allenamento” per l’udienza. Due ore di allenamento prima di una partita importante non vuol dire vincerla. A me sembrava di aver perso. Che cosa poi?

Driss alla fine sembra contento. Due ore di domande, il rischio di innervosirsi e infine il salvataggio in corner. L’ultima stretta di mano con Driss non la dimentico. Il suo sguardo verso destra e il sorriso sdendato. E si torna in strada a Bologna – via Marconi ha le luci gialle accese e l’incrocio è pieno di auto in attesa al semaforo. Me ne vado e non mi volto.

Non so niente di quello che ha conosciuto Driss; di certo niente, in parte tanto. E come lui mi sento perso in questo posto e, anche standoci una vita in questa città, non smetto a volte di sentirmici alieno. Smarrito, senza nessuna radice ed in cerca di frutti. Solo un modo per vivere meglio.

Alla giornata da più di vent’anni.

Oussama Mansour
©2018 Il Grande Colibrì

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