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Chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una volta sola.
Paolo Borsellino (1940-1992)

Qualcuno reagì con toni incomprensibilmente soddisfatti quando il procuratore antimafia di Palermo Antonio Ingroia raccontò che tra i mafiosi ci sono anche degli omosessuali: dopo i pinguini gay, ecco i boss arrusi, siamo davvero dappertutto! Di fronte ad un bisogno di legittimazione che sprofondava nel patologico, fece bene l’allora presidente nazionale di Arcigay, Aurelio Mancuso, a precisare: “Non possiamo in alcun modo considerarci onorati dal fatto che anche dentro le organizzazioni criminali mafiose esistano omosessuali” [pagina cancellata visualizzabile su Wayback Machine].

Il comunicato venne comunque criticato, un po’ perché aggiungeva inutili dettagli truculenti (“Il codice d’onore delle varie mafie prevede sanzioni dure, fino all’assassinio per chi viene scoperto omosessuale”) esplicitamente smentiti dallo stesso Ingroia e un po’ perché si concludeva con uno sconclusionato appello alla conversione e redenzione lanciato ai mafiosi gay: “Possiamo solo sperare che questi omosessuali riflettano bene sulla loro condizione personale e decidano di dissociarsi”.

Ben pochi allora rimarcarono che, laddove Mancuso aveva generalizzato, Ingroia aveva fatto un preciso riferimento alla “mafia siciliana”: è noto, infatti, che la camorra, ad esempio, tollera le transessuali (come dimostra la storia della boss Ketty, arrestata un anno fa) e gli omosessuali, purché sessualmente attivi e “discreti”. Quasi nessuno, soprattutto, colse il fatto che quel “possiamo solo sperare” dichiarava una sostanziale estraneità del movimento LGBTQ* alla comune lotta contro le mafie.

Eppure prima e dopo quel comunicato stampa non sono mancate occasioni (pur generalmente piccole e sempre comunque sottovalutate, come quasi tutti i tentativi di aprirsi al mondo circostante e di non fissarsi solo sui propri temi specifici) in cui alcune associazioni LGBTQ* hanno partecipato ad iniziative anti-mafia o hanno aperto le proprie iniziative, come i Pride, ai temi della legalità e della lotta alla criminalità organizzata. A dimostrazione che, nel movimento rainbow, qualcuno pensa che il contributo di gay, lesbiche e transgender può essere utile a combattere le mafie. Insomma, che si può non solo sperare, ma anche agire.

L’ultima importante presa di posizione è l’adesione del Gay Center di Roma alla fiaccolata anti-mafia che si terrà il 19 luglio nella capitale. “La lotta contro ogni forma di oppressione e di abuso deve avere i diritti come parola d’ordine. Siamo impegnati per una società che coniughi legalità, diritti e sicurezza” afferma Fabrizio Marrazzo, portavoce dell’associazione [Il Grande Colibrì], tracciando il parallelismo più evidente tra mafia e omofobia: sono entrambe forme di oppressione che limitano la libertà degli individui.

Esistono però anche meccanismi più sottili che accomunano le due realtà e che può essere molto interessante far emergere: infatti, alcune osservazioni sviluppate sulle mafie possono essere utili a combattere l’omofobia, e viceversa.

Prendiamo ad esempio la tendenza a focalizzare l’attenzione sugli attori “istituzionali” dell’oppressione mafiosa e omofobica (le cosche, le ‘ndrine, i clan da una parte; la Chiesa, altre organizzazioni religiose, Giovanardi, Binetti & Co. dall’altra) e sugli aspetti fisicamente violenti dei due fenomeni (una mafia che non spara non fa notizia e non desta allarme, esattamente come un omofobo senza un coltello in mano). E’ interessante capire che queste due tendenze, sebbene abbiano esiti differenti nelle due situazioni, portano in entrambi i casi a effetti deleteri.

Come ormai chiaro, gli attori istituzionali sono solo la punta di un iceberg assai più pericoloso: sotto le cosche e gli omofobi di professione esistono interessi (economici, politici, di controllo delle coscienze…) che non possono e non vogliono essere esplicitati; intorno alle cosche e agli omofobi di professione, poi, esistono immense zone grigie costituite da persone che vivono in un clima diffuso di mafiosità e di omofobia, alcune traendone vantaggio, altre diventando complici o addirittura vittime senza rendersene pienamente conto.

Ecco il problema: l’attenzione solo agli attori istituzionali e solo agli atti violenti porta le persone a diventare ingranaggi del sistema oppressivo senza rendersene pienamente conto, senza esserne completamente consapevoli. Soprattutto senza sentirsi in colpa: faccio affari illeciti con personaggi poco chiari e seppellisco rifiuti pericolosi in discariche abusive, ma non ho la lupara sotto braccio, quindi non sono mafioso; racconto barzellette sui froci e guardo male due gay che si baciano per strada, ma non li massacro di botte, quindi non sono omofobo…

Non è un caso se proprio un magistrato anti-mafia come Paolo Borsellino abbia sottolineato come “la lotta alla mafia […] non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti”, proprio per abbattere non solo la punta esplicitamente violenta dell’iceberg, ma anche l’enorme base culturale che preferisce tacere sotto il pelo dell’acqua. Riflessioni importanti per un movimento LGBTQ* che, in larga parte, difende a spada tratta l’ipotesi repressiva della legge Concia senza porsi troppi interrogativi…

Ma l’eccessiva enfasi sui fatti violenti non solo deresponsabilizza l’oppressore “comune”, ma anche ingenera chiusura nel privato e paura, cioè rafforza il principale strumento di controllo e dominazione in mano a mafiosi e omofobi: non c’è troppa differenza, nei meccanismi psicologici e sociali, tra chi paga il pizzo per paura di essere gambizzato o diventa picciotto per paura di essere oppresso e chi non gira mano nella mano con il suo partner dello stesso sesso per paura di essere pestato o non si dichiara per paura di essere discriminato.

Non c’è molta differenza neppure nelle modalità efficaci di combattere mafie e omofobia: la principale arma è la parola, con poche differenze tra la denuncia anti-mafiosa e la visibilità LGBTQ*, due modi per uscire fuori (coming out) dall’oppressione dell’armadio in cui ci vorrebbero tenere rinchiusi. Ma in entrambi i casi la parola è un’arma da invocare con attenzione, senza pretese troppo soffocanti sui singoli individui che possono trasformare uno strumento di libertà in un’imposizione in base alla quale dividere, senza sforzo di comprensione, i buoni dai cattivi.

Giovanni Falcone invitava a tenere conto che la mafia “è un fenomeno terribilmente serio e grave, e va combattuto non pretendendo l’eroismo di inermi cittadini, ma coinvolgendo nella lotta le forze migliori delle istituzioni”. La parola è fondamentale, ma non si può sempre additare come pavido o come moralmente imperdonabile il silenzio di chi non ha le forze o gli strumenti per denunciare un boss o per dichiararsi omosessuale. La parola che rompe l’omertà, infatti, non può e non deve essere trasformata in una battaglia di singoli “eroi”, ma è invece la lotta culturale collettiva all’interno della quale diventa possibile per l’individuo reimpadronirsi della propria voce.

Occorre avere il coraggio collettivo di rinunciare al mercato della paura, anche quando ci attribuisce il facile ruolo delle vittime, per restaurare la piazza della polis, in cui rivendicare il ruolo di cittadini, con tutti i suoi diritti e tutte le sue responsabilità. Per poter poi costruire insieme una nuova cultura di rispetto e di libertà per gli altri e per se stessi. Per poter poi percorre insieme nuove strade lastricate non di speranze di libertà, ma di libere azioni.

 

Pier Cesare Notaro
©2011 Il Grande Colibrì
immagine: elaborazione da pxhere (CC0)

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