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Qualcuno acclama Hicham Tahir, qualcun altro lo attacca: questo giovane scrittore marocchino, 24 anni, ha recentemente pubblicato la sua prima raccolta personale di racconti, “Jaabouq” (Casa express 2013, 128 pp.), ma non è un esordiente. Quando aveva solamente 19 anni, Hicham ha pubblicato un racconto, “La felicità”, nell’opera collettiva “Lettere a un giovane marocchino” (“Lettres à un jeune Marocain”, Editions du Seuil 2009, 216 pp.), coordinata da Abdellah Taïa e pubblicata in Francia da Edition de Seuil, una delle case editrici migliori e più prestigiose. Dopo di ciò, il suo racconto “Non dire niente” è stato incluso nella raccolta “Jean Genet, un santo marocchino” (“Jean Genet, un Saint Marocain”, Libr Colonnes 2010, 264 pp.), che riunisce testi di Tahar Ben Jelloun, Abdellah Taïa, René de Ceccatty e altri autori di talento. Il grande colibrì lo ha intervistato.

Dopo aver contribuito a raccolte firmate da autori importanti, sei già famoso sin dall’inizio della tua carriera da romanziere…

Quando faccio un passo indietro, ripenso a questi ultimi cinque anni. È un sogno. Ho sempre amato scrivere, era l’unico modo che avevo per esprimere quello che non riuscivo a dire, soprattutto ad altre persone. Ma solo dopo la pubblicazione del mio racconto in “Lettere a un giovane marocchino” l’idea di lavorare sulle mie proprie opere è sembrata possibile: pubblicare ormai era una certezza, non solamente un sogno infantile.

Ti senti un “predestinato”?

Non lo so… Sono sicuro di una cosa sola: ho bisogno di scrivere, anche senza pubblicare. Per me questa è una terapia.

Il tuo libro, “Jaabouq,” è una raccolta di racconti brevi che creano un ritratto del Marocco, un paese “benedetto dalla sua maledizione, maledetto dalla sua bellezza”…

“Jaabouq” parla del Marocco che ha vissuto in me. I suoi volti, la sua repressione, la sua schizofrenia, il suo amore e la sua bellezza: tutte queste cose sono parte di esso, come esso è parte di me. L’obiettivo non era quello di dare voce agli “incompresi” o agli “individui”, ma era dire a me stesso: “Ehi, ricorda che nel tuo Marocco c’è sempre qualcosa di peggio”.

Nel libro, ci sono molti personaggi. Nella prima parte, molto intima, ci sono le lettere, come “Lettera a un padre”, che è una sorta di discorso di lutto sul rapporto aggrovigliato con mio padre. “Mama Africa” è la storia di una donna sub-sahariana, che considera l’Europa come un Eldorado e che non ha avuto nessun regalo dalla vita. “Assim” è un ragazzo omosessuale che viene da un quartiere disagiato: non capisce cosa sta succedendo. Comunque, lui non si fa troppe domande: semplicemente vive. “Jaabouq” affronta questioni come lo stupro, il velo, l’essere senza fissa dimora, il suicidio. Si parla di persone marocchine che fanno il bello ed il cattivo tempo in questa società. Si parla di “ego” che sono sempre gonfiati in una società come quella marocchina.

Hai ricevuto un sacco di elogi e sei stato premiato con il riconoscimento “Colpo di fulmine della giuria” del “Premio del romanzo gay 2013”, organizzato dalle francesi Éditions du Frigo. Sei soddisfatto?

“Jaabouq” ha ricevuto il premio, e l’autore. Mi sveglio la mattina, come Hicham Tahir l’individuo, non l’autore. Quindi è difficile per me sentire questo premio come il mio. Ma è un onore avere un così bel apprezzamento già al mio debutto. Mi auguro che possa aiutare le persone a capire che si può essere se stessi, non importa da dove si proviene, e ricevere gratificazioni di questo tipo, indipendentemente dal campo in cui si agisce.

Due anni fa, hai organizzato sul tuo blog (Hicham Tahir) una serie di “Lettere a un omosessuale”, scritte da tuoi amici e da te stesso. Tra le altre cose, hai scritto: “Non avete il dovere di gridarlo dai tetti”, ma anche: “Gli omosessuali sono sempre stati parte della nostra storia, della nostra cultura, del nostro patrimonio”…

Le “lettere a un omosessuale” sono state ispirate dalle “Lettere a un giovane marocchino”. L’idea mi è venuta quando un giovane mi raccontò i problemi legati alla sua omosessualità, mi descrisse il suo senso di solitudine. Ho trovato triste che, all’alba del XXI secolo, ci siano ancora persone che si sentono sole nella loro situazione, nella situazione in cui la società ha voluto tenerle.

Pensi che il Marocco debba modificare la propria legge anti-LGBT o pensi che una società tollerante sia sufficiente per una persona per vivere serenamente la propria omosessualità?

Pensare che il Marocco debba cambiare la propria legge è come dargli ragione nel considerare l’omosessualità un problema. No, non penso che debba cambiare, perché una legge del genere non avrebbe mai dovuto esistere. È stupida! Noi rifiutiamo di vedere la realtà: l’omosessualità è sempre esistita tra noi e queste leggi non può abolirla o eliminarla.

Tuttavia, prima di richiedere l’abolizione di questa legge, la priorità dovrebbe essere quella di educare i giovani omosessuali a capire che non devono aver paura di quello che sono. Oggi è urgente che il giovani omosessuali marocchini, Imazighen [berberi; NdT], arabi, internazionali (non importa la loro origine) prendano coscienza di quello che sono, capiscano che non fanno nulla di male, smettano di considerare un problema come la società giudica chi dorme con chi, chi ama chi.

Secondo molte persone, essere gay e musulmani allo stesso tempo è ancora (o è ora più che mai) un tabù, anche se vengono create sempre più spesso delle moschee inclusive, come quella di Parigi. Pensi che l’Islam possa essere una religione che rispetta tutte le forme di amore?

Io non sono un imam, non posso predicare né impartire lezioni su Islam e Corano. Tutto quello che so è che, se da un punto di vista religioso (e di nuovo, stiamo parlando di interpretazioni coraniche…) l’omosessualità è un peccato, dobbiamo sapere che chiunque commette peccati, per tutto il corso della giornata. Dobbiamo capire che Allah (Dio, Yahweh, non importa il nome) non è uno sciocco. In un hadith del profeta, è chiaramente indicato: “Le penne sono state sollevate e le pagine si sono asciugate”. Dio conosce il nostro destino e tutti i credenti possono concordare sul fatto che non fa errori. Quindi, o Dio ha creato gli omosessuali per punirli o le persone hanno interpretato male le sue parole. E io preferisco credere che Dio sia pieno di amore e che sono gli esseri umani ad essere in errore, invece di pensare che ha creato gli omosessuali per mandarli all’inferno solo per divertimento.

 

Michele
traduzione di Michele e Pier
©2013 Il Grande Colibrì

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