Skip to main content

Allarme nei campi-lager di rifugiati nell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, per i gay e i bisessuali che tentano di fuggire in Australia. A 11 anni dalla sua nascita il centro di detenzione di Manus venne diviso nel 2012 in una sezione femminile (Nauru, per donne e bambini) e una maschile (Manus). Realizzato attraverso la discutibile “Pacific Solution” nel 2001, il centro è diventato ben presto un vero e proprio lager, tanto che sia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) che Amnesty International e molte altre organizzazioni internazionali hanno denunciato le terribili condizioni in cui le persone vivono all’interno di questa struttura, soprannominata da qualche anno la “Guantanamo australiana”.

Violenze e diritti violati

Omicidi, suicidi, gravissimi episodi di auto-lesionionismo (alcuni hanno ingoiato delle lame, altri si sono dati fuoco), stupri di detenuti e guardie, morti per carenza di cure: questa è la drammatica situazione di Manus e di Nauru. Si aggiungono inoltre le minacce di morte dirette ai detenuti da parte dei cittadini della Papua Nuova Guinea, che non vogliono più centri del genere sulle loro terre [Equal Times].

Il governo di Canberra firmò un accordo con quello papuano di Port Moresby affinché la Papua, in cambio di aiuti economici, si prendesse carico dei migranti che cercano disperatamente di arrivare in Australia. L’accordo avrebbe dovuto dissuaderli a intraprendere il viaggio. I migranti in teoria dovrebbero rimanere nel centro giusto il tempo necessario per esaminare le domande di asilo. Nessuno però è ancora riuscito a ottenere il visto d’entrata in Australia e il centro, dichiarato incostituzionale nell’inverno dello scorso anno, non è ancora stato ufficialmente chiuso.

L’evacuazione di Manus

Alla fine dello scorso novembre la polizia, armata di manganelli e spranghe, è entrata nella struttura con l’intento di evacuarla definitivamente, ma non tutti se ne volevano andare: molti si sono rifiutati anche di trasferirsi in altri centri dell’isola, per paura di nuove violenze e per l’incertezza del loro destino. Sebbene i video che documentano le violenze siano oggettivamente chiari, il capo della polizia papuana, Gari Baki, ha sostenuto che gli sgomberi si sono svolti “pacificamente e senza l’uso della forza”: “Stiamo facendo del nostro meglio e i rifugiati non possono continuare a essere testardi e provocatori” [The Advertiser].

Ai rifugiati, rimangono ben poche alternative: aspettare – non si sa quanto e non si sa come – di ottenere un visto per l’Australia (che però rifiuta a chiunque l’ingresso); chiedere di stabilirsi in Papua Nuova Guinea (paese purtroppo estremamente povero e carico di tensioni sociali in tutto il territorio); o tornare nei loro paesi d’origine. Inoltre, nonostante le ultime esternazioni di Donald Trump, circa 100 rifugiati sono stati o verranno trasferiti negli Stati Uniti questo mese, come già una cinquantina partiti alla volta di New York lo scorso settembre. Anche la Nuova Zelanda si è offerta di accoglierne un centinaio.

Richiedenti asilo LGBT

Ma quale sarà il destino dei rifugiati LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender)? Sull’isola di Manus ci sono attualmente almeno una trentina di migranti omosessuali e bisessuali che non vedono l’ora di arrivare in Australia, dove la richiesta di asilo sulla base dell’orientamento sessuale è ovviamente legale. Per loro stabilirsi in Papua vorrebbe dire tornare in un paese che criminalizza il loro orientamento sessuale (fino a 14 anni di carcere), cosa che succederebbe anche se facessero ritorno nel loro paese. Alcuni di loro non potrebbero nemmeno volare negli USA a causa del noto divieto di Trump verso le persone provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana.

Le condizioni dei centri non hanno facilitato e non facilitano la loro situazione. Si trovano chiusi in una morsa: dal 2013 il governo della Papua Nuova Guinea ha dichiarato che ogni attività omosessuale nei campi sarebbe stata segnalata alla polizia (e dunque punita). Dichiararsi, quindi, vorrebbe dire esporsi a violenze e abusi da parte di polizia, detenuti e gente del posto anche per anni, visti i tempi della burocrazia. D’altra parte non dichiararsi significa mettere a repentaglio la propria possibilità di ottenere lo status di rifugiato in quanto provenienti da paesi in cui l’omosessualità è perseguitata.

“Questi sono uomini, fuggiti dalle persecuzioni nei loro paesi d’origine sulla base del loro orientamento sessuale, sono in cerca di sicurezza e invece, in Papua, trovano discriminazione e punizioni. L’Australia dovrebbe fare un’eccezione per loro, o come minimo esortare la Papua Nuova Guinea a cambiare la legge in modo che le relazioni omosessuali non siano criminalizzate” dichiara Elain Pearson, direttrice di Human Rights Watch Australia [The Advertiser].

Domande inopportune

I rifugiati LGBT potrebbero presentare un reclamo presso il Dipartimento per l’immigrazione e la protezione delle frontiere per ottenere un visto. Se gli venisse negato, potrebbero appellarsi alla Divisione rifugiati e migrazione del Tribunale per gli appelli amministrativi. Il processo, però, è noto per la sua invasività e prende come base alcuni stereotipi sull’effeminatezza che ben conosciamo.

Uno dei processi più vergognosi si svolse nel 2003: in esso venne negato il visto ad un rifugiato che non rispose correttamente a domande su arte, letteratura, musica e icone gay, tra cui Madonna e Oscar Wilde. Secondo i giudici mentiva sulla sua sessualità per non aver saputo rispondere a domande del tutto fuori luogo. Un altro uomo è stato costretto a fare sesso con un australiano, un ragazzo del Bangladesh si è visto respingere la sua domanda perché non sapeva il nome di una discoteca gay di Sidney. Solo un quinto dei richiedenti asilo omosessuali ottiene il visto.

I fortunati che arrivano in Australia si trovano a dover combattere i pregiudizi e le discriminazioni delle associazioni religiose che spesso si occupano del loro inserimento, e accade che per paura non sporgano neanche denuncia contro l’omofobia di coloro che dovrebbero occuparsi di aiutarli. La felicità per il “sì” ai matrimoni gay in Australia è durata molto poco per queste persone, che non hanno idea di cosa li aspetta dall’oggi al domani, né sanno quando potranno finalmente smettere di soffrire e di nascondersi, di essere visti come criminali.

Ginevra Campaini
©2018 Il Grande Colibrì
foto: Love Makes A Way (CC BY-SA 2.0)

Leggi anche:

Spagna, abusi contro i richiedenti asilo gay a Ceuta

Centri per richiedenti asilo LGBT: privilegio o protezione?

Leave a Reply