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Gli attivisti LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) maghrebini in soli cinque giorni hanno organizzato in Tunisia due manifestazioni, un dibattito pubblico, un volantinaggio e un flash mob per le strade della capitale. Tutto a volto scoperto e alla luce del sole (ilgrandecolibri.com). Nonostante una legge che punisce con il carcere l’omosessualità. Nonostante solo poche settimane prima, come denuncia il gruppo lesbo-femminista Chouf Minorities, una sua militante sia stata violentata sotto la minaccia di un coltello e un’altra sia stata picchiata da alcuni uomini a causa del suo orientamento sessuale. Il coraggioso esempio degli attivisti maghrebini è stato applaudito? E’ stato lodato? Si è corso il rischio che venisse persino glorificato? Tutt’altro: è stato semplicemente ignorato. Fuori dalla Tunisia, oltre a questo sito, ne ha parlato svogliatamente qualche media francese e poco più.

L’evidente importanza della notizia e l’evidente silenzio dei media sono in plateale contrasto. C’è qualcosa che non funziona se la lettera scritta a Dolce e Gabbana da un qualsiasi papà gay seduto davanti al suo computer in un appartamento del quartiere Castro di San Francisco merita una standing ovation planetaria, mentre passano sotto silenzio le manifestazioni di una comunità che per la prima volta decide di sfidare apertamente l’omofobia delle leggi e della società. Cosa c’è che non va, quale meccanismo dell’informazione si è inceppato?

Probabilmente la risposta è molto banale: raccontare l’attivismo africano è semplicemente difficile, perché l’Africa è molto spesso interpretata unicamente attraverso l’immagine stereotipata del carnefice omofobo africano – e della vittima omosessuale africana, ridotta a semplice spalla tragica del suo carnefice – e la presenza di attivisti determinati e coraggiosi non è prevista nello schema. Anzi, è talmente lontana dalla retorica comune che diventa indicibile, indescrivibile. Raccontare un Pride in Tunisia – un paese africano, ma anche arabo e musulmano, e quindi ancora più compresso nel cliché – richiederebbe di abbandonare l’immagine stereotipata che offre una spiegazione semplice ormai sedimentata, di iniziare ragionamenti nuovi, più complessi e sfumati.

A volte i media semplicemente non hanno idea di come raccontare l’attivismo LGBT in certi paesi e quindi semplicemente, quasi inconsapevolmente, non lo raccontano, per non abbandonare le loro interpretazioni semplicistiche e rassicuranti, un po’ per pigrizia e un po’ per il timore che suscita la necessità di rivedere le proprie idee. Qualcuno tace pensando in buona fede che sia meglio non parlare di donne e uomini forti e coraggiosi, perché si rischia di far sembrare l’omofobia che li circonda meno assoluta, meno totalizzante. Questo non significa che non parleranno mai degli attivisti LGBT africani: ne parleranno quando saranno perseguitati o uccisi, cioè quando saranno vittime, ma non quando faranno delle battaglie e sfideranno lo status quo, cioè quando saranno, appunto, attivisti.

Eppure non è questo quello che vogliono gli attivisti africani, non è questo quello che gli serve. Dopo le violenze sessuali e le botte subite dalle proprie militanti, le femministe lesbiche di Chouf Minorities non usano parole da prede impaurite, ma da leonesse orgogliose: “Negano il nostro diritto di essere noi stesse, negano il nostro diritto di essere donne. Ma noi siamo donne e in quanto donne non cesseremo di rivendicare il nostro diritto di esistere come vogliamo“.

Più a sud, in Nigeria, l’attivista Bisi Alimi nel 2007 è stato rapito e torturato, è scampato per un soffio alla morte, come spiega oggi nell’intenso discorso del video qui sotto. “Quella notte ho smesso di essere una vittima e ho iniziato ad essere Bisi Alimi. […] Volevano spezzarmi, ma non mi sono fatto spezzare. Volevano zittirmi, ma non mi sono fatto zittire. Volevano derubarmi del mio orgoglio, ma non gliel’ho permesso“. E conclude così: “Festeggio il fatto di essere un campione e non una vittima“.

La persecuzione delle persone omosessuali e transgender è Africa. Le leggi omofobiche sono Africa. Ma sono Africa anche il coraggio dei Pride tunisini, la rabbia battagliera di Chouf Minorities, la sfida orgogliosa di Bisi Alimi e di tanti altri come lui. Sono Africa anche i due uomini che si sono sposati, nonostante lo scandalo generale, alla Mayotte, dipartimento francese a nord del Madagascar (linfo.re). Sono Africa anche le donne del Comitato femminile multipartito che in Sudafrica reclamano leggi più dure contro l’omofobia e gli “stupri correttivi” (allafrica.com). E’ Africa anche l’editorialista che in Ghana chiede alla Chiesa presbiteriana locale di seguire l’esempio dei correligiosi americani accogliendo le persone LGBT (spyghana.com).

Sicuramente sotto la terra d’Africa giacciono distesi troppi corpi di gay, lesbiche e transessuali uccisi, ma sono ancora di più i corpi diritti di transessuali, lesbiche, gay ed eterosessuali che camminano e marciano sulla terra d’Africa combattendo per i diritti di tutti. Con fatica e impegno, spesso anche con grandi rischi per la propria incolumità, stanno rompendo un muro di silenzio che i nostri media, tacendo della loro esistenza e delle loro battaglie, assurdamente aiutano a cementare.

Pier
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