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Tra il 6 e il 7 marzo in Cina sono state arrestate almeno nove femministe attive nella lotta per le pari opportunità e contro le violenze domestiche (la metà dei mariti cinesi ammette di picchiare la moglie), ma anche per i diritti di persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e disabili e per il contrasto alle malattie sessualmente trasmissibili, come ha denunciato l’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani (OPHRD), progetto dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (OMCT) e della Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH). Cinque di queste donne sono ancora in prigione, dove non stanno ricevendo un’assistenza legale adeguata e si teme che una di loro, che soffre di diabete, non venga curata correttamente. Accusate di “seminare zizzania e provocare disordini“, rischiano di essere condannate a cinque anni di carcere (fidh.org).

Cosa hanno combinato di così grave e pericoloso queste cinque donne – Wei Tingting, direttrice dell’associazione LGBT Ji’ande di Pechino; Li Tingting, una delle lesbiche più conosciute in Cina e direttrice del programma LGBT del Centro Yirenping della capitale; Zheng Churan, che lavorava per la stessa organizzazione a Guangzhou; Wu Rongrong, fondatrice e direttrice del Centro femminile Weizhiming di Hangzhou; e Wang Man, coordinatrice di Appello globale per combattere la povertà? L’8 marzo, festa della donna, avrebbero dovuto distribuire volantini contro le molestie sessuali nei luoghi pubblici, nell’ottica di una campagna che non avrebbe avuto come bersaglio il Partito comunista cinese. E allora perché le attiviste sono in prigione da così tanti giorni?

La risposta non è né semplice né chiara e probabilmente sono entrati in gioco diversi fattori. Sicuramente il governo non ha apprezzato il fatto che si svolgesse attività politica in prossimità della convocazione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento cinese) e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, come spiega anche la giornalista femminista Zhao Sile (foreignpolicy.com): in questo periodo dell’anno il paese deve apparire come estremamente armonioso e ogni tensione deve essere nascosta. Ma questa spiegazione non basta a giustificare arresti così clamorosi, che hanno coinvolto anche attiviste che hanno collaborato con la Federazione delle donne di tutta la Cina, l’associazione femminile “ufficiale” molto vicina al governo.

Come ipotizza ancora Zhao, probabilmente nel governo è cresciuta la diffidenza nei confronti di un movimento di mobilitazione civica che, a partire dal 2010, è diventato sempre più forte e visibile: “Il partito-stato non vede di buon’occhio nessuna organizzazione o persona socialmente attiva, per questo noi femministe inevitabilmente diventiamo un bersaglio degli organi governativi che hanno come priorità le misure per ‘mantenere la stabilità’“. Anche Li Tingting, una delle donne arrestate, aveva spiegato tempo fa, come riporta chinafile.com in uno splendido ritratto dell’attivista, che “è difficile comunicare con il governo perché hanno pregiudizi sulle organizzazioni non governative: pensano che creino sempre disordini e che siano negative per la società“.

La stessa Li e la sua famiglia già da qualche anno ricevevano esplicite pressioni affinché la ragazza cessasse le sue attività politiche, ma nessuno si aspettava un giro di vite così pesante: per la scrittrice Leta Hong Fincher ci troveremmo davanti ad “una escalation della paranoia del governo cinese” (time.com/).

Inoltre, non è escluso che nell’arresto abbia avuto un ruolo anche l’impegno delle donne a favore delle persone LGBT (oltre a Li Tingting e Wei Tingting, inizialmente erano state arrestate anche  Gao Lei, attivista transgender fondatrice di Uomini buoni per il femminismo, e Xu Ting, del gruppo LGBT Coalizione arcobaleno di Wuhan). Come spiega l’attivista lesbica Xin Ying, una parte consistente del Partito comunista teme i nuovi modelli di relazione proposti dalla comunità omosessuale: “Se le coppie dello stesso sesso potessero sposarsi, in un certo senso distruggerebbero il concetto tradizionale di famiglia“.

Gi attivisti per i diritti in Cina, dopo gli ultimi eventi, oggi vivono nella paura, soprattutto perché le motivazioni poco chiare degli arresti impediscono di farsi un’idea di come agire senza suscitare le ire del governo. Nonostante questo, però, è partita una forte mobilitazione online, che si è riunita intorno all’hashtag #FreeTheFive (Liberate le cinque donne). “L’arresto – spiega Zhao – ha galvanizzato tante femministe cinesi e abbiamo visto una grande solidarietà tra attivisti: è molto rincuorante“. E alcuni gruppi femministi da tutto il mondo hanno deciso che a settembre boicotteranno le celebrazioni del ventesimo anniversario dell’importante Conferenza mondiale sulle donne, organizzata dalle Nazioni unite a Pechino nel 1995.

Come sempre succede, chi si mobilita rappresenta comunque una piccola minoranza. “Gran parte delle persone della mia generazione hanno paura a far sentire la propria voce – spiegava ancora Li – Si sentono impotenti e non fanno nulla. Ma non voglio biasimarle, perché non c’è davvero nessuna legge che protegga i loro diritti“. Li, però, ha seminato speranza e saggezza: “Il cambiamento avviene passo dopo passo, ma noi dobbiamo accelerarlo. Alcuni dicono che non può esistere un’uguaglianza assoluta tra i generi e che quindi non ha senso combattere per questo fine. Ma se combatti per un ideale, non dovresti farlo perché pensi di poter realizzare l’ideale: dovresti combattere per un ideale perché è giusto farlo“.  E oggi è giusto combattere per la libertà di Li e delle altre femministe cinesi.

Pier Cesare Notaro
©2015 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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