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Storia di un detenuto:
I parte: Il giorno del mio arresto
V parte: Il paese dei diritti

18 maggio.
Oggi, nella cella di fronte alla mia, un algerino ha cercato di suicidarsi. Erano le 10 del mattino, quasi tutti i detenuti della sezione erano appena usciti all’ora d’aria. Come al solito, c’era chi ascoltava la radio, chi guardava la televisione, chi puliva la propria cella e chi dormiva fino a tardi come me. Come ogni giorno, i lavoranti – così vengono chiamati i detenuti che lavorano all’interno della sezione, ai quali è assegnato il compito di pulire il corridoio del braccio e di servire i tre pasti giornalieri – aspettando che arrivassero i carrelli del pane e della frutta dalla cucina per distribuirli prima di darsi da fare con le pulizie, si sono fermati a chiacchierare con i loro amici. L’algerino era rimasto solo in cella, si era legato il collo alle sbarre della finestra con un lenzuolo, credo abbia pensato bene a come farlo perché aveva messo il suo materasso sotto i suoi piedi dopo essersi tolto le scarpe, per non far rumore se si agitava sbattendosi a fin di vita.
Appuntato, appunta’, apri la 23, si è impiccato” disse il lavorante. Correndo a vedere dalla porta della mia cella vidi la guardia impaurita che tra le decine di chiavi che aveva in mano non riusciva a trovare quella giusta, poi la aprì. Arrivarono qualche minuto dopo il medico, l’infermiere e un’altra guardia e entrarono tutti dentro. Il lavorante si girò e disse sorridendo: “E’ ancora vivo, ha un po’ di sbava ma respira”… Il suo sorriso non indicava sollievo, ma piuttosto disprezzo. Disse in arabo: “Che spettacolo, voleva un po’ d’attenzione e mo’ l’avrà tutta per sé in isolamento per un mese, così impara!”, aggiunse anche: “Se vuoi proprio morire dentro (intendeva in galera) ci sono ben altri modi per farlo. E poi tanto qua dentro sei morto, perché affaticarsi!“.

(dal diario)

Dall’infermeria, dopo essermi fatto le analisi di sangue, mi trasferirono al braccio 1D, la sezione riservata ai magrebini tossicodipendenti. Lì mi misero con due compaesani miei, uno di nome Hamid e l’altro Houcine. Hamid aveva 43 anni, era lì da quasi sei mesi per furto in un supermercato. Invece Houcine, 35 enne, per spaccio di hashish, ed era dentro da più di dieci mesi. Tutti e due recidivi. All’opposto dell’infermeria, le celle delle sezioni erano ben mantenute dai detenuti, le pulizie si fanno due volte a settimana e le lenzuola si cambiano ogni venti giorni. La doccia era in cella e quindi non c’era bisogno di fare la fila per ore prima di potersi lavare. Le pareti erano coperte da poster tagliati dai giornali ma l’odore dell’umido era sempre stato lo stesso.

Una durissima realtà: la gente qua scambia una goccia di caffè con una sigaretta, un mezzo chilo di farina con una cipolla, vedo la fame negli occhi di questi uomini. Addirittura ce ne sono che offrono il proprio corpo per qualche goccia di metadone… Ieri Hamid ha scambiato un pacchetto di cartine con una pillola blu per il mal di testa, dicono che sia la più efficace tra tutti i medicamenti che danno in carcere.

(dal diario)

Durante la prima settimana nella nuova sezione mi tenevo occupato scrivendo per ore il diario che spedivo a Nico insieme alle lettere. Non potevo scriverlo in arabo per paura che lo leggessero, e, sapendo che i miei compagni di cella erano analfabeti, lasciare le lettere mandatemi da Nico e le pagine del mio diario sotto il materasso non costituiva un vero pericolo.

23 maggio.
Oggi sono uscito all’ora d’aria per la prima volta dopo 6 giorni dal mio arrivo nella cella N° 9. Vedevo gli occhi di tutti che mi osservavano ambiguamente. Mi sentivo a disagio e spaventato. Camminavo a passi svelti pur di non fermarmi a parlare con nessuno per non far vedere lo studente educato dentro di me… ma ad un tratto vidi il ragazzo tunisino che era con me in infermeria gli ultimi due giorni che trascorsi là. Gli avevo mentito dicendogli che fossi turco dopo che avevo visto che spacciava l’eroina che era riuscito a far entrare  in carcere ingoiandola prima di essere arrestato e portato in carcere. Speravo che non mi riconoscesse, ma ormai era tardi, ero nella sezione dei nord africani e sono stato smascherato. Mi disse: “Quindi non sei turco?” seduto sotto l’ombra del muro grigio in compagnia di altri tunisini.
Mentre mi avvicinavo a lui per salutarlo cercando una giustificazione convincente, si era alzato di fretta come se volesse attaccarmi e vidi che teneva in mano una lama. Per un attimo ho pensato di colpirlo prima che lo facesse lui, ma velocemente egli mi schivò allontanandosi da quello che era dietro di me. Era un marocchino a cui doveva qualcosa. Mi misi rapidamente nell’angolo più distante e osservai la rissa tra i tunisini ed i marocchini. Mi batteva forte il cuore. Respiravo con fatica e non riuscivo a credere che le guardie penitenziarie erano rimaste dietro le finestre a guardare, fino alla fine della rissa. Alla fine, ne uscirono tre tagliati con le lamette, uno con un piede rotto e un altro col naso sanguinante.

(dal diario)

Scrivevo più che altro perché preferivo stare alla larga dagli “harraga”una parola araba che indica i migranti clandestini, perché sin da quando sono arrivato in Italia gli studenti arabi li descrivevano come dei mostri, animaleschi egoisti che cercano unicamente i loro profitti. Non guardavo la mia arroganza, mi sbagliavo perché mi sentivo superiore agli altri detenuti, sapevo che la galera non era fatta per me e pensavo che loro fossero nati lì dentro… Ma a quei tempi non capivo ancora, perché non avevo ancora visto e vissuto.

Era una realtà che non riuscivo ad accettare, non volevo credere che sarei rimasto là per mesi tra gli abituali “ospiti” di quel braccio 1D, non volevo capirlo, finché non parlai con il mio avvocato di fiducia che aveva pagato Nico per me. Mi disse che nei casi di questo genere il gip solitamente lascia che la persona impari per un periodo di un paio di mesi dentro il carcere, ma mi promise di presentare un’istanza prima del giorno del mio compleanno che sarebbe stato a metà giugno. Lo scrisse a Nico e ci preparammo per rivederci entro una ventina di giorni. Ci descrivemmo come sarebbe stato il nostro rincontro e ci descrivemmo tutti i dettagli tra chiamata, attesa, lacrime, baci e sorrisi…

Azhar
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VII parte: Amore, dimmi bugie

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