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In occasione del Fetish Pride Italy (ilgrandecolibri.com), Roma ospiterà il Fetish Film Festival (fetishpride.it), rassegna cinematografica che proporrà dal 26 febbraio al 2 marzo lungometraggi e corti inediti al Kino Cine Club (via Perugia 34). Al rapporto tra cinema e feticismo è dedicata questa interessante analisi che Massimo Fusillo, docente di critica letteraria e letterature comparate all’Università dell’Aquila e autore tra l’altro di “Feticci. Letteratura cinema arti visive” (Il Mulino 2012, 224 pagine, 20 euro), ha scritto per i lettori de Il grande colibrì.

Il cinema è un’arte intrinsecamente feticistica: raffigura infatti la realtà attraverso tagli e dettagli. E il dettaglio è l’anima del feticismo: il microcosmo in cui il soggetto appaga un desiderio potenzialmente infinito. Una nuca, un taglio di capelli, uno stivale, un giubbotto di pelle, un portachiavi, un mozzicone di sigaretta possono racchiudere in sé un intero mondo di passioni ed emozioni, e possono avere un’attrattiva sessuale impensabile.

Se ci teniamo a questa visione generale, troviamo feticismo nel cinema di tutti i tempi e di tutti i generi, soprattutto nei registi meno antropocentrici, cioè quelli che danno molto spazio al mondo delle cose, come faceva già un grande romanziere maestro del dettaglio, Gustave Flaubert. Geni un po’ eccentrici del cinema classico come Max Ophüls, che intesse tutto un film, “I gioielli di Madame de…”, su un paio di orecchini; o come Joseph von Sternberg, che negli anni Trenta gira un film folle, visionario e manierista come “L’imperatrice Caterina”, in cui l’ambientazione e la decorazione di mille statue grottesche giocano un ruolo preponderante. Un film che si può definire senz’altro camp per la sua teatralità volutamente eccessiva, chiamando in causa una categoria estetica nata dal mondo gay.

Oppure possiamo rivolgerci al cinema di animazione di Svankmejer, o alla ricerca degli anni Settanta, quando Marco Ferreri poteva fare un film come “Dillinger è morto” solo sul predominio degli oggetti nella vita quotidiana, o un altro come “I love you” sulla passione per un portachiavi. Insomma non ci mancherebbero gli esempi.

Le cose cambiano se passiamo a parlare del feticismo in senso stretto, come pratica sessuale che si interseca spesso con il sadomasochismo e con tutte le forme di sessualità meno tradizionale. Per sadomasochismo bisognerebbe intendere una pratica sessuale basata sul consenso e sul rispetto reciproco, capace di trasfigurare le pulsioni aggressive e (auto)distruttive, decantandole nel gioco, nella ritualità, in una performance che sovverte parodicamente le logiche di potere. Una pratica quindi mentale e culturale, che utilizza codici, riti, sceneggiature, e un’ambientazione sempre creativa (il setting): tutte componenti che hanno una chiara matrice teatrale, e in cui gli oggetti (fruste, croci, stivali) giocano un ruolo fondamentale, come anche la convertibilità fra persone e cose (il piacere della reificazione: sentirsi oggetto o usare l’altro come oggetto).

Purtroppo questa visione del sadomasochismo è ancora minoritaria: tanto nelle rappresentazioni letterarie e artistiche, quanto nella mentalità comune, prevalgono invece connotazioni torbide e “maledette”, che lo identificano con un uso gratuito e indiscriminato della violenza, e quindi con una perversione pericolosa, per nulla consensuale. Non è quindi facile trovare film (o romanzi) che raffigurino bene il feticismo e tutta la galassia BDSM, senza queste connotazioni negative, che d’altronde non mancano nemmeno nei testi letterari che per primi hanno descritto e dato nome a queste pulsioni.

Nelle opere del Marchese de Sade è molto presente la componente rituale (“cerimonia” è una parola chiave, ripetuta in modo quasi ossessivo), ma molto raramente associata a un interesse feticistico per gli oggetti (tranne un po’ per gli abiti): nelle “120 giornate di Sodoma”, prima che si trasformino nella parte finale in un catalogo di efferatezze, la dimensione dominante è quella genitale, esibita con una descrittività esasperata e monotona, in cui si esplica una negatività radicale.

Le cose cambiano se passiamo all’altro grande archetipo, a Leopold von Sacher-Masoch, che non a caso appartiene a quell’estetismo che spesso sconfina nel camp. Secondo il filosofo Gilles Deleuze, che ha il merito di aver valorizzato molto questo scrittore, il feticismo sarebbe una componente primaria del masochismo, e non del sadismo, e rientrerebbe nel suo carattere estetizzante: il feticcio nasce da un disconoscimento della realtà, che viene sospesa per creare un’immagine ideale, un fantasma. Inutile sottolineare quanto questa operazione assomigli alla creatività artistica.

La sospensione gioca un ruolo importante nel masochismo innanzitutto a un primo livello letterale: l’immobilizzazione è infatti una delle sue pratiche più diffuse, nelle possibili varianti di appendere lo schiavo a una croce, o di sospenderlo appunto dall’alto, e via dicendo. Il secondo livello è invece più estetico: nella scrittura di Sacher-Masoch abbondano infatti i momenti in cui l’azione è sospesa, raggelata come fosse un quadro, una scultura, una fotografia, un’immagine allo specchio, un’installazione di arte contemporanea. Insomma ci troviamo di fronte a un altro dei mille modi con cui si esprime il piacere di trasformare la persona in cosa.

Nelle opere di Sacher-Masoch ricorrono spessissimo giochi e riti di carattere teatrale, spesso basati sull’animalizzazione: finzioni di cacce all’orso, o altre sceneggiature basate sul potere e sulla legge, come spesso nella prassi reale del sadomasochismo, che adotta veri e propri protocolli di comportamento, che “parodiano” la disciplina militare (questo già all’inizio della cultura leather negli anni Cinquanta del secolo scorso, da cui si è sviluppato il mondo BDSM). Nel suo testo più famoso, la “Venere in pelliccia”, da poco portato sullo schermo da Roman Polanski in un rifacimento teatrale, il feticismo si rivolge, oltre che agli oggetti legati alle pratiche sessuali, come le fruste, soprattutto al capo d’abbigliamento così simbolico che dà il titolo; un rapporto ossessivo che coinvolge soprattutto i sensi del tatto e dell’olfatto.

Forse il film che più sfugge alla visione maledetta e negativa del BDSM, e indaga a fondo in modo inedito il feticismo, è “O Fantasma” (Portogallo, 2000) di João Pedro Rodrigues, purtroppo non sempre accolto favorevolmente dalla critica e dal pubblico. E’ un film basato sull’identificazione con il punto di vista di un ragazzo che ha una passione feticistica per la gomma (la tuta rubber con cui fa sesso già nei titoli di testa e con cui vaga folle fra i rifiuti nel finale), e per altri materiali industriali, ed è ossessionato da un oggetto d’amore particolarmente sfuggente, il fantasma per l’appunto, un altro ragazzo che ci viene mostrato solo attraverso lo sguardo voyeuristico del protagonista.

Nonostante qualche tocco di maledettismo, soprattutto nel finale in cui la carica autodistruttiva raggiunge il suo vertice (ma le scene nelle discariche hanno comunque una bellezza spettrale e siderale), il film spicca per la sua assenza di giudizi morali: girato tutto di notte, spesso in ambientazioni degradate, dominate dallo sporco e dai rifiuti (il protagonista è uno spazzino), ci mostra con un rigore estremo ed estremistico un’ossessione totalizzante, compresi i suoi vuoti, i silenzi, le ripetizioni.

Ci fa identificare totalmente con una sessualità in cui prevale in tutti i sensi l’oggettualità, sia per il piacere di reificarsi, sia per la passione per i materiali bruti, evidente nel culto erotico degli oggetti posseduti dal ragazzo amato: il suo costume da bagno rotto ripescato fra i rifiuti, che il protagonista indossa sotto la doccia, masturbandosi e stringendosi il collo con il tubo; i guanti da moto sempre ripescati nella spazzatura, con cui si accarezza il corpo nudo; la motocicletta stessa e persino le tubature della doccia che usa in piscina – una scena simile, ma con una funzione più classicamente memoriale, si trova in un romanzo del 1958, “Il meglio della vita” (The Best of Everything), di Rona Jaffe (da cui Negulesco ha tratto un film): una ragazza ripesca dalla spazzatura tutti gli oggetti dell’uomo che l’ha lasciata.

Un culto che diventa parossistico e si rovescia in aggressione nel momento in cui l’eros non è corrisposto, come nella scena in cui si introduce di notte nella casa del ragazzo e orina sul suo letto, o quando lo immobilizza con il nastro adesivo e lo possiede. Il film contiene infatti tutti i riti e gli scenari dell’immaginario feticista e sadomasochista: le divise dei poliziotti, il manganello, i bagni pubblici, le grate, l’animalizzazione.

Il feticcio e il fantasma non sono dunque sostituti di una pienezza perduta: sono gli unici oggetti di un amore che vive di ritualità e di ricerca infinita.

Per trovare proposte innovative come questa bisogna uscire dai circuiti di distribuzione correnti (in cui “O Fantasma” è comunque riuscito ad apparire), e rivolgersi ai festival, dove è apparsa ad esempio l’anno scorso (a New York e a Torino, fra gli altri) la docufiction di James Franco “Interior. Leather bar (1980)”, che prendendo spunto dalla ricostruzione delle scene censurate del famoso “Cruising” imbastisce una riflessione molto queer sui modelli dominanti della sessualità, contestando la loro “eteronormatività”.

Un’occasione preziosa viene ora dal Fetish Film Festival che da Kiel sbarca a Roma, in occasione del primo Fetish Pride italiano, proponendo cortometraggi, documentari (ad esempio sull’evento più importante della comunità leather mondiale, l’elezione di International Mr Leather a Chicago), film di finzione (come “L’eredità di Caino”, dedicato a Sacher-Masoch), e tanto altro. Un modo insomma per capire meglio una sessualità che è anche uno sguardo sul mondo.

 

Massimo
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