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Sforzo numero uno: immaginate un’organizzazione dotata di belle e democratiche regole di decisione, immaginate un voto che indichi l’indiscutibile vittoria di un candidato, immaginate un capo che a questo punto straccia tutto, definisce un errore la decisione democratica e spiega come sia evidentemente molto più giusto inseguire evidenti ma inconfessabili convenienze economiche e di potere. Sforzo numero due: dimenticate, almeno per qualche minuto, i partiti di questa sciagurata Italia, perché, che ci crediate o no, oggi non vogliamo parlarvi di loro.

Oggi, infatti, andiamo a San Francisco, capitale della comunità LGBTQ* americana  e sede di un Pride nato nel lontano 1970, giunto alla propria 44esima edizione ed orgoglioso di aver sempre registrato, nel nuovo millennio, più di un milione di presenze. Si capisce bene, allora, perché la scelta del padrino o della madrina della manifestazione, definito pomposamente come “Gran cerimoniere”, sia un evento simbolicamente importante per il movimento rainbow d’oltreoceano. I nomi dei candidati a questa carica vengono selezionati con mesi d’anticipo e sottoposti al voto di una speciale commissione elettorale formata da tutti i gran cerimonieri delle edizioni precedenti.

E così anche quest’anno, a marzo, la commissione ha eletto il padrino per la marcia del 30 giugno e a fine aprile, dopo qualche settimana di suspence, è stato annunciato il vincitore: si trattava di Bradley Manning, l’analista gay dell’esercito USA accusato di aver passato a Wikileaks informazioni riservate, tra le quali un video girato in Iraq in cui alcuni soldati americani, tra commenti divertiti e risate, uccidevano una dozzina di civili disarmati, tra cui due bambini e due giornalisti della Reuters. Tre anni fa Manning è stato arrestato e ha ricevuto trattamenti talmente inumani e degradanti che, anche secondo un rapporto dell’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU, hanno violato la convenzione contro la tortura.

Per mesi Manning è stato lasciato nudo o in mutande in isolamento totale in una cella vuota, eccezion fatta per una coperta molto ruvida che doveva servirgli da letto, e illuminata notte e giorno, da cui poteva uscire solo 20 minuti al giorno e in cui a volte veniva tenuto anche incatenato. Si sarebbe trattato di semplici misure di prevenzione, hanno spiegato le autorità militari, perché Manning non solo avrebbe tentato il suicidio, ma sarebbe anche “non normale” e “non stabile” in quanto forse affetto da un “disturbo dell’identità di genere“. Gli ex padrini del Pride hanno visto in lui un eroe americano, ma anche una vittima della transfobia e un coraggioso attivista omosessuale: ben prima dello scandalo Wikileaks, Manning ha partecipato a varie manifestazioni LGBTQ*, rischiando l’espulsione dall’esercito.

La scelta di Manning, però, ha suscitato subito forti polemiche: se Dan Choi, uno dei primissimi soldati gay a sfidare le norme omofobiche, oggi cancellate, dell’esercito USA, si è detto molto soddisfatto, Josh Seefried, presidente dell’associazione di militari omosessuali OutServe-SLDN, ha definito su Twitter la decisione come “un insulto diretto a migliaia di soldati e veterani LGBT“. E il veterano della marina e attivista gay Sean Sala ha lanciato su Change una petizione contro Manning  (“E’ un traditore degli USA. E’ una vergogna per la comunità militare LGBT e si batte a favore di tutto quello contro cui lotta la comunità militare LGBT. Vergognati, San Francisco“) e ha invitato a boicottare il Pride (Instinct). A brontolare, però sono stati soprattutto gli sponsor

E così si è arrivati al colpo di scena: Lisa L. Williams, presidente del consiglio di amministrazione del Pride, ha annunciato che “Bradley Manning non sarà il Gran maresciallo nelle celebrazioni del Pride di San Francisco di quest’anno. La sua nomina è stato un errore che non sarebbe mai dovuto accadere“. Secondo quanto scrive Williams, l’inserimento del nome di Manning nella rosa dei candidati sarebbe stata opera di un dipendente non autorizzato. Stranamente, però, non spiega come mai abbia scoperto questo fatto increscioso solo dopo che quel nome è stato votato, eletto, tenuto al caldo per un mese, ufficialmente proclamato vincitore e infine contestato…

Il comunicato di Williams, d’altra parte, non convince in nessun passaggio: ad esempio, se come lei ricorda Manning non è stato ancora condannato per nessun reato, lei tuona che “neppure un accenno di sostegno ad azioni che hanno messo in pericolo la vita dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme sarà tollerato“? E come mai ha scoperto solo ora che lasciare la scelta del Gran cerimoniere a “meno di una manciata di persone” sarebbe un “fallimento sistematico” (Facebook)? Ed è davvero sicura che l’annullamento del voto sgradito di pochi da parte di ancor meno persone sia un fulgido esempio di democrazia?

Le polemiche, come facilmente prevedibile, si sono fatte ancora più feroci: c’è chi ha già organizzato un sit-in di protesta, chi stampa magliette di solidarietà a Manning da indossare durante il Pride, chi al Pride non ci andrà proprio, chi prepara contestazioni… E c’è poi il noto editorialista del Guardian Glenn Greenwald che riprende le accuse di schiavitù nei confronti del business, già mosse l’anno scorso da OccuPride (Il grande colibrì): perché la manifestazione ripudia Manning che forse ha violato delle leggi, mentre accoglie tra i propri sponsor aziende già condannate per reati gravi, come AT&T, Bank of America o Wells Fargo? Sui due piatti della bilancia ci sono da una parte Manning e gli ideali del movimento e dall’altra gli sponsor e i soldi. Cosa pesa di più purtroppo sembra evidente…

Pier
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