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Il tema dell’immigrazione sembra essere diventato uno dei principali argomenti di discussione di politici e gente comune. I social network, i forum e gli spazi di commento ai piedi degli articoli sono ormai divenuti un terreno di scontro più che uno spazio di confronto. Le voci che si domandano come arginare l’ondata di nazionalismo e di aperta xenofobia che sta sommergendo l’Italia e l’Europa in effetti non mancano, ma sono troppo spesso messe a tacere da una retorica violentemente populista che raccoglie decisamente più consensi.

Al lupo, al lupo

Lo sappiamo tutti, ormai: la battaglia elettorale si vince a colpi di slogan sempre più martellanti e allarmistici. Gridare all’invasione, alla sostituzione etnica, al rischio di perdere quei valori (casa, famiglia, lavoro e Vangelo) che secondo il ministro dell’interno caratterizzerebbero il Belpaese, è diventato il mezzo più efficace per raccogliere voti e apprezzamenti.

Poco importa che i dati statistici raccontino un’altra storia. Poco importa che esistano fior fiore di ricerche che dimostrano in maniera “difficilmente contestabile che gli immigrati rappresentino oggi un vantaggio per l’INPS (come avviene in tutti i paesi sviluppati)“. Poco importa anche che la scienza abbia smentito categoricamente gli ingloriosi discorsi sulla divisione in razze dell’umanità: le parole del ministro della famiglia Attilio Fontana fanno certamente più rumore di quelle di esperti come l’antropologo Marco Aime.

Taxi del mare

Il primo è stato il ministro del lavoro Luigi Di Maio. In un post del 21 aprile 2017 il vicepresidente del Consiglio aveva infatti espresso tutta la sua perplessità in merito alle operazioni di soccorso e salvataggio delle organizzazioni non governative (ONG) nel Mediterraneo. Successivamente Di Maio ha provato a ridimensionare la portata dell’accusa spiegando di “non aver mai definito le ONG taxi del mare” e di aver semplicemente detto “che alcune ONG mancano di trasparenza“.

L’uscita, decisamente infelice, ha provocato lo sdegno di numerosi scrittori e giornalisti, primo fra tutti Roberto Saviano che ha anche chiesto al ministro di scusarsi pubblicamente per le sue parole. Disgraziatamente, sembra che in molti abbiano preso sul serio le affermazioni di Di Maio e le polemiche anti-ONG sono andate moltiplicandosi.

Di recente, per esempio, il neo ministro delle infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli ha rilasciato un’intervista in cui esprimeva le sue perplessità sull’operato delle navi Lifeline e Seefuchs. Come se non bastasse, Toninelli aveva aggiunto che “la presenza di queste imbarcazioni a poche miglia della costa libica è un richiamo per i trafficanti. E ciò crea un incentivo alle partenze“.

Sulla stessa lunghezza d’onda è il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio, che nell’editoriale del 10 luglio prende una posizione molto netta e sostiene l’esistenza di un legame molto profondo (“ormai acclarato e addirittura rivendicato“) tra le ONG e i trafficanti libici. L’articolo, intitolato “Sotto la maglietta“, prende di mira anche l’iniziativa “Una maglietta rossa per fermare l’emorragia di umanità” promossa da don Luigi Ciotti e dall’associazione Libera. Un’iniziativa a cui peraltro avevano aderito anche “decine di amici” dello stesso Travaglio.

Come spesso accade, anche in questo caso le accuse mosse da Travaglio, Toninelli e da quanti si ostinano ad attaccare le ONG non sono suffragate da prove certe ed evidenti.

Anzi, in un articolo pubblicato da Internazionale la giornalista Annalisa Camilli fa notare che “le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ONG (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti“. “La notizia – ricorda ancora Camilli – è stata riportata anche dal Fatto“.

Diego Bianchi, giornalista e conduttore televisivo, in un tweet ha anche invitato Travaglio a spiegare su quali basi si fondino le sue accuse: “Per interesse personale e professionale – ha scritto – avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi“. Il direttore del Fatto Quotidiano gli ha risposto in un nuovo editoriale, “citando come prova ‘acclarata’ alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ONG tedesca Jugend Rettet“.

Pazienza se l’indagine in corso da un anno non abbia condotto ad alcun processo e a nessuna condanna: forse le convinzioni personali sono più forti della realtà giuridica.

Purché (non) se ne parli

Il professor Fabio Sabatini non poteva credere ai suoi occhi: il suo account Facebook aveva ricevuto talmente tante segnalazioni da essere rimosso e sospeso per due giorni. La motivazione? Violazione del divieto di “mostrare nudità e atti sessuali” sul social network.

Peccato che sul suo profilo Sabatini non aveva postato alcuna immagine pornografica, ma “solamente” le immagini del salvataggio di una donna che rischiava di morire dopo un naufragio. I soccorritori fanno parte dell’ONG Open Arms e hanno cercato invano di prestare aiuto anche a un bimbo che, dopo due giorni passati in mare aperto, non è purtroppo riuscito a sopravvivere.

Secondo Sabatini, la sospensione del suo account Facebook va a braccetto con il “colossale processo di rimozione collettiva” che da un po’ di tempo a questa parte imperversa un po’ ovunque. “Come i tedeschi conducevano una vita indifferente alle porte del lager – scrive il professore – noi accettiamo senza batter ciglio che grappoli di persone muoiano per raggiungere le nostre spiagge. Oppure neghiamo che tutto questo stia accadendo, come testimonia la convinzione diffusa che le foto dei bimbi annegati ritraggano in realtà dei bambolotti“.

Il giornalista dell’Espresso Alessandro Gilioli è molto chiaro in proposito: si vuole impedire la partenza dei migranti non per ragioni umanitarie (per evitare che muoiano in mare!), ma per egoismo personale. Le morti nel Mediterraneo sono troppo vicine a noi, avvengono sotto i nostri occhi, ci interrogano tutti, dal primo all’ultimo. Se le persone morissero in qualche sperduto angolo dell’Africa, “lontano dai nostri occhi, dalle nostre telecamere, dai nostri titoli di TG“, nessuno ci farebbe caso. Nessuno ne parlerebbe. Nessuno se ne preoccuperebbe. Nessuno si sentirebbe in colpa. Non è un problema nostro, che si arrangino.

Il sangue che non si vede non ha bisogno di lacrime per essere lavato via.

Il diritto di r-esistere

Eppure il sangue c’è, e scorre. La sofferenza esiste, le guerre esistono, la fame, la sete, le discriminazioni, le violenze, i soprusi non si fermano semplicemente perché noi decidiamo di ignorarli. La sfida di questi anni forse è davvero questa: tenere gli occhi aperti e guardare. Aprire le palpebre che abbiamo incollato con il bostik e osservare quello che accade davanti a noi. Io per prima devo imparare a farlo, anche se mi turba, mi inquieta, mi mette in crisi. Anzi forse proprio per questo. La vita non è una scala di cristallo, diceva una madre a suo figlio in una celebre poesia. E per molti esseri umani non è neanche una pacchia.

Voglio fare mie le parole di Aboubakar Soumahoro, di Roberto Saviano, di Michela Murgia e Zerocalcare e di tutti coloro che sono convinti che per rispondere all’emorragia di umanità sia necessario rispondere con coraggio e non voltarsi dall’altra parte. Oggi più che mai credo sia giusto provare a r-esistere.

Nicole Zaramella
©2018 Il Grande Colibrì
foto: djs

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