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Adesso il suo nome lo so quasi pronunciare: al-Birtu. Sì, insomma, qualcosa del genere… Comunque l’ho sempre chiamato Alif, un po’ perché il suono più o meno ci somiglia, un po’ perché quando lo vidi la prima volta mi fece pensare proprio alla lettera alif. Anche tutti gli altri, con il tempo, hanno rinunciato a usare quello strano nome italiano. Credo che abbiano vergogna di pronunciare male quei suoni stranieri. Lui no, non ha mai avuto vergogna di storpiare i nostri nomi con il suo accento dolciastro e cantilenante.

Alif l’ho scoperto io. Ero ancora piccolo e una mattina, stanco di guardare i quiz per i bambini dove non riuscivo mai a ricordare i nomi dei martiri che si erano fatti esplodere dall’altra parte del muro, decisi di andare a raccogliere conchiglie sulla spiaggia. E nascosto dietro un muretto, trovai il suo corpo immobile, alto e magro, con le gambe rigide, le braccia dritte lungo i fianchi, gli occhi chiusi.
La prima cosa che pensai, come ho detto, era che sembrava una alif stesa per terra. Lo so, era un pensiero stupido, ma in quel periodo ci stavano insegnando l’alfabeto… Comunque subito dopo mi ripresi e pensai che quel corpo… beh, era proprio un corpo. Morto, senza dubbio.
Ma non avevo ancora imparato il valore del dubbio…

I miei genitori accolsero Alif a braccia aperte. Era un eroe, anche se lui continuava a ripetere a Samir, l’unico che conoscesse un po’ di inglese, che non aveva fatto niente di speciale. Ad Alif venne assegnato il letto che era stato di Bassam, il nostro fratello che era stato ucciso da un proiettile dell’esercito dell’altra parte del muro mentre andava a comprare del latte. Nella stanza dormivamo in quattro, i miei genitori avevano una camera per loro.

In quei mesi, quando si passava vicino al mare, tutti avevamo guardato l’orizzonte, chi per lunghi minuti, chi solo con un’occhiata veloce. Il mio popolo aspettava delle navi cariche di cibo, medicine e giocattoli. Noi bambini non capivamo se era una storia vera o solo una favola che ci raccontavano i grandi. “Portano prima di tutto la speranza” diceva sempre mio padre, per troncare la gara di fantasticherie con cui noi fratelli immaginavamo i tesori che avrebbero scaricato al porto: palloni da calcio, bambole con lunghi capelli, giostre con i cavallini che girano in tondo, cavalli veri, elefanti veri, bauli colmi di monete d’oro, astronavi intergalattiche…
Alif si trovava su una di quelle navi. I soldati dell’altra parte del muro, però, circondarono l’imbarcazione con delle barche militari e, dal cielo, con degli elicotteri. I marinai venuti da lontano rimasero immobili, impietriti dalla paura. Si sentivano solo le pale degli elicotteri, solo le pale, solo le pale, un rumore che ti rimbombava in testa, che ti faceva girare ed esplodere la testa.
All’improvviso una ragazza lanciò un urlo, terrorizzato, altissimo, più alto del rumore delle pale degli elicotteri. Si sentì solo il suo grido, in quel lungo istante. Poi la ragazza afferrò una delle bambole che dovevano portare qui e la scagliò con tutta la sua forza contro uno dei soldati. Da lì i rumori si confusero nella testa di Alif, erano tanti, ma solo uno era importante: quello delle pallottole che arrivavano da ogni parte.
Alif non sapeva nuotare, il mare gli faceva paura, ma le pallottole erano terrore puro, fisico, metallico. Si buttò in acqua. Da lì non ricorda più niente. Nessuno, neppure lui, ha mai capito come è arrivato sulla spiaggia. “Dio solo sa” dice sempre mia madre e penso che abbia proprio ragione. Alif ricorda solo di essersi risvegliato sulla spiaggia, di essersi nascosto dietro un muretto, per paura di essere ricercato dai soldati. E poi di un bambino che l’ha ritrovato.

Questa storia l’ha raccontata migliaia di volte, a noi della famiglia e ad ogni ospite che arrivava a casa, con il suo arabo stentato che sembrava non migliorare mai davvero. Per fortuna che era molto bravo a parlare coi gesti: sembrava una marionetta.
Quando eravamo soli, invece, preferiva raccontare della città da dove veniva, con lo sguardo sognante: “Le case galleggiano su una laguna. E’ tutto un intrecciarsi di piccole stradine, di piccoli ponticelli e di piccoli canali su cui si affacciano palazzi che brillano come se fossero tutti ricoperti di oro. E si gira su piccole barchette lunghe e strette, con una forma strana”.
Io gli chiedevo perché non voleva ritornarci, perché se ne restava in questo villaggio di calce, pietra e polvere, senza acqua.
“Sto bene qui” rispondeva. E io non capivo.

Alif era divertente e gentile, era sempre allegro. Rideva e parlava senza sosta, anche se per molto tempo il suo arabo non lo riusciva a capire nessuno. A volte io e lui aiutavamo mia madre e mia sorella Amal, che è la più grande di tutti, a cucinare, quando non c’era mio padre. Oppure Alif giocava con me, quando non c’era Samir. Quando invece c’era, gli dedicava ogni attenzione. Perché era l’unico con cui poteva parlare inglese, pensavo io.

Poi la sera del giorno in cui mio fratello era diventato maggiorenne, mentre i miei genitori già dormivano e Samir e Alif non erano ancora tornati (andavano spesso a vedere il mare di notte), Amal mi disse di prendere lenzuola e cuscini e portarli in sala: avremmo dormito sul divano da quella notte in poi. Io protestai, ma non ci fu niente da fare. “Fa troppo freddo in camera, dormiremo in sala” disse lei e, con l’autorevolezza dei suoi vent’anni, mi mise a tacere.
Quando i due ragazzi tornarono a casa furono sorpresi di vederci accampati sul divano.
“Che succede?” chiese Samir. La sua voce era insicura e lui aveva sul volto la mia stessa espressione di quando venivo scoperto a rubare lo zucchero in cucina.
“Voi dormite in camera, per noi fa troppo caldo di là” disse Amal, lentamente.
Io non riuscivo a capire se Amal avesse caldo o freddo. Anche Alif non ci stava capendo niente, ma lui perché non capiva l’arabo.
Amal e Samir si sono guardati negli occhi a lungo, con uno sguardo strano, senza dire niente. Poi Samir ha detto solo “Grazie” e Amal lo ha abbracciato. Avevano entrambi le lacrime agli occhi.
Quando mio fratello e Alif sono andati nella camera, mia sorella mi ha chiesto: “Vuoi bene a Samir?”.
“Sì”.
“Allora giurami che gli vorrai sempre bene”.
Non capivo perché, ma giurai.

La mattina dopo Samir e Alif uscirono molto presto, perché mio fratello aveva forse trovato un lavoretto al nostro amico italiano. Ma quando i miei genitori uscirono dalla loro stanza, si alzarono le urla. Mio padre, vedendo che Amal ed io avevamo dormito in sala, andò su tutte le furie.
“Queste cose in casa mia non le posso tollerare” gridava, rosso in volto e con le braccia che roteavano come pale di un elicottero. Io pensavo che se le avesse girate più forte forse avrebbe iniziato a volare. Ma, ovviamente, gli davo piena ragione: che idea era dormire sul divano, come facevano i profughi a cui hanno buttato giù la casa!
Mia madre cercava di calmarlo, con voce lamentosa: “Habibi, la vita è tutta un triste assedio e se Dio ha voluto mandare qui Alif a rompere l’assedio intorno a Samir dobbiamo solo ringraziare”.
“Si vede come quell’italiano sta ringraziando noi” gridò mio padre, furibondo: “Ma come puoi accettare questa cosa?”.
“Dio solo sa cosa è giusto e solo il cuore lo capisce” replicò mia madre, questa volta con una strana durezza.
Poi mia sorella si intromise nella disputa: “Noi due”, disse perentoria indicandomi col dito, “dormiremo qui in sala. E se non possiamo dormire in sala, dormiremo sul balcone”.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso di mio padre. Si girò verso di me e, prima di uscire di casa sbattendo la porta, mi disse, con il sibilo di un serpente: “Con la morte di Bassam, noi uomini siamo diventati una minoranza in questa famiglia”.
A me non tornavano i conti, ma c’era una cosa che mi premeva di più. “Io non voglio dormire in sala! Perché Samir e Alif possono dormire nella camera e io no?” piagnucolai, supplicando con lo sguardo mia madre.
“Quando avrai una moglie, avrete anche voi una stanza tutta per voi” rispose mia madre e dal tono della voce capii benissimo che il discorso era chiuso per sempre. Come era chiuso per sempre un altro discorso che solo con quelle parole iniziai ad intuire…

Alif ormai è uno di famiglia, anche se il grado di parentela non è mai stato esplicitato. Quella frase di mia madre pronunciata nella mia infanzia è rimasta negli anni un’allusione dall’audacia irripetibile. “Sono Alif, un amico di Samir”: è così che lui si presenta, miagolando il suo buffo arabo.
I lunghi anni in cui mio padre e Samir non si guardavano neppure mi sembrano così lontano adesso che osservo mio padre, invecchiato e indebolito, rientrare a casa con il labbro sanguinante. Non è la prima volta che ha fatto a pugni e, anche se non ce lo dirà mai, sappiamo tutti che ha cercato di nuovo di difendere l’onore dei suoi figli. Di tutti i suoi figli.
Mia madre e mia sorella non sono in casa ed è Alif ad alzarsi per prendere il disinfettante e la garza. Mio padre si siede, alza la testa per farsi medicare e dice: “Ma dai, non ti preoccupare, ibni, non è niente”. E osserva quel suo figlio venuto dal mare per prendersi cura di lui.
Alif racconta non so quale sciocchezza e ride e gira lo sguardo dappertutto pur di non affrontare il dolore di incrociare quello sguardo che gli sta chiedendo perdono.

Pier Cesare Notaro
©2011 Il Grande Colibrì
immagine: Il Grande Colibrì

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