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Il teatrino dura da tre anni: la Polonia nel 2015 ha concordato con l’Unione Europea di accogliere 6.182 richiedenti asilo, ma poi li ha sempre rifiutati. Nel frattempo, però, il governo di Varsavia ha concesso 140mila permessi di lavoro a persone extracomunitarie nel 2016 e altri 250mila nel 2017, secondo le cifre ufficiali del ministero della famiglia, del lavoro e delle politiche sociali. E questo aumento dell’80% in un anno non basta: questo stesso ministero ha promesso che renderà ancora più facile per le imprese locali impiegare personale extracomunitario entro l’estate.

Ma perché rifiutare 6mila persone, che godrebbero di ricche sovvenzioni comunitarie, mentre se ne fanno arrivare nel paese, pagando tutte le spese, quasi 400mila in due anni e ancora di più nel futuro? Proviamo a fare qualche ipotesi.

Ipotesi 1: i richiedenti asilo non sono abbastanza qualificati.
La manodopera qualificata rappresenta appena il 12% della manodopera estera richiesta dalle aziende polacche: quasi tutti i lavoratori extracomunitari devono svolgere mansioni nell’edilizia e nel settore agroalimentare per cui non è richiesta nessuna qualifica particolare. L’ipotesi è da scartare.

Ipotesi 2: i richiedenti asilo hanno una cultura troppo lontana.
Mentre scende il numero dei confinanti ucraini e bielorussi, geograficamente e culturalmente vicini, sale quello degli asiatici. E gli asiatici, come testimoniano gli imprenditori (ma non si lamentano: strano, eh?), non solo non conoscono la cultura e la lingua polacche, ma non hanno neppure una lingua-ponte, come l’inglese o il francese, con cui comunicare. Molti richiedenti asilo, invece, sono anglofoni o francofoni. Anche questa ipotesi, quindi, è da scartare.

Ipotesi 3: i richiedenti asilo sono musulmani e al governo polacco questo non piace.
Nessun dubbio che il governo polacco sia profondamente islamofobo, ma questo non impedisce che tra gli stati da cui il paese “importa” più manodopera ci siano Bangladesh e Uzbekistan, per non parlare dei tanti indiani musulmani. E aggiungiamoci pure i pachistani, che stanno crescendo molto. Insomma, neppure questa ipotesi regge.

Ipotesi 4: i richiedenti asilo potrebbero essere terroristi.
Ho appena parlato di Uzbekistan. Erano uzbeki Masharipov, l’attentatore di Istanbul del 16 gennaio 2017 (39 morti); Jalilov, l’attentatore di San Pietroburgo del 3 aprile 2017 (16 morti); Akilov, l’attentatore di Stoccolma del 6 aprile 2017 (5 morti); e pure Saipov, l’attentatore di New York di Halloween (8 morti). La stampa internazionale ha più volte descritto l’Uzbekistan come “la nuova scena del radicalismo islamico“, come ha titolato per esempio lo svedese Dagens Nyheter. Certo, sarebbe del tutto irrazionale non volere più uzbeki perché quattro di loro hanno commesso attentati, ma lo è ancora di più invocare il terrorismo per chiudere le porte agli ivoriani e tenere le porte spalancate agli uzbeki. Altra ipotesi da scartare, quindi.

E allora? Come si spiega l’atteggiamento del governo polacco, a prima vista così irrazionale? Proviamo a partire dalle condizioni con cui i lavoratori extracomunitari ottengono il permesso di lavorare in Polonia.

Il datore di lavoro deve garantirti solo tre cose: 1) il salario minimo; 2) un tetto – e intendo “un tetto” in senso assolutamente letterale: per la legge polacca è perfettamente legale ficcarti in un bilocale con una dozzina di altre persone – e 3) un contratto di lavoro biennale (più raramente annuale) che per legge ti vincola a lavorare sempre per lo stesso datore di lavoro, pena l’espulsione. Trovi di meglio? Espulso. Non ti trovi bene? Espulso. Ti lamenti? Espulso. Il datore di lavoro non rispetta le regole? Espulso – tu, mica lui, sia chiaro!

Allora ci riprovo.
Ipotesi 5: i richiedenti asilo sono meno schiavizzabili.
Sembra assurdo, considerando quanto sia facile sfruttare i richiedenti asilo, eppure i lavoratori “importati” sono ancora più sfruttabili in modo non solo legale, ma perfino del tutto previsto e incentivato dalla legge.

Intanto il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha festeggiato il trionfo del suo omologo ungherese Viktor Orbán, quello che ha vinto le elezioni al suono di “via gli stranieri che ci rubano il lavoro” e “salari bassi per essere più competitivi” (questi slogan vi ricordano qualcosa?). E allora diamo una sbirciata all’Ungheria.

Secondo il Központi Statisztikai Hivatal (Ufficio statistico centrale), in Ungheria il 60% delle imprese edili, il 44% delle industrie manifatturiere, il 37% delle società di servizi non trovano la manodopera che gli serve. Cosa è successo? È successo che gli ungheresi scappano dal paese, a causa dei salari troppo bassi. E che migranti e richiedenti asilo vengono cacciati, perché accusati di rubare posti di lavoro che restano vacanti. Ma intanto “salari bassi” e “via gli stranieri” si traducono in milioni di voti.

Ora, da tutto questo dite che qualcuno riuscirà finalmente a capire che, se la destra campa bene sulle bugie, la sinistra dovrebbe iniziare a non vergognarsi più a gridare la verità, anche quando appare “buonista”? O continuerà a tacere sul fatto che il re xenofobo è nudo come un verme?

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì

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