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Decine di migliaia di israeliani sono scesi in piazza a Tel Aviv per protestare contro la nuova legge sulla gestazione per altri (GPA): la norma riconosce il diritto a usufruire di questa tecnica medica non solo alle coppie eterosessuali sposate, come in passato, ma anche alle donne nubili. Restano invece esclusi gli uomini celibi e le coppie gay. Da qui è nata una protesta dalle proporzioni raramente viste in Israele, anche grazie al sostegno di molte aziende che hanno permesso ai propri dipendenti di non andare in ufficio per partecipare alla manifestazione, in un curioso sciopero sponsorizzato dai datori di lavoro.

Un punto di svolta… verso il niente?

Per Mordechai Kremnitzer queste proteste sono positive e potrebbero essere “un punto di svolta nella storia di Israele“, che potrebbe finalmente reclamare quel diritto all’uguaglianza assente nelle leggi fondamentali per volere dei partiti religiosi, paladini della supremazia ebraica. Ma David Rosenberg placa subito gli entusiasmi e definisce le proteste come “l’inizio di niente“: come spiegano i sondaggi, le persone manifestano a favore dei diritti LGBTQIA, ma poi continuano a votare il governo omofobo di Benjamin Netanyahu, perché l’economia va bene.

Avrà ragione Gideon Levy, secondo cui le proteste sulla GPA sono solo il modo più semplice per la società israeliana per dirsi a favore di un’uguaglianza che, in realtà, nega giorno dopo giorno? “Immaginatevi cosa avremmo pensato se i bianchi del Sudafrica all’epoca dell’apartheid fossero scesi per le strade per reclamare il diritto degli uomini di diventare genitori con la GPA, mentre la popolazione nera continuava a vivere sotto un regime d’inferno” scrive Levy, che depreca l’assenza di proteste per i diritti sempre più negati dei palestinesi, degli arabi israeliani, dei disabili, dei richiedenti asilo africani…

Israele stato-nazione degli ebrei

È significativo soprattutto che le proteste non si siano concentrate su un’altra norma approvata a poche ore di distanza da quella sulla GPA: la legge che riconosce Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico. Eppure questa è una legge a carattere costituzionale e soprattutto è una legge decisamente più pericolosa e discriminatoria, tanto che persino il presidente della repubblica israeliana, il nazionalista conservatore Reuven Rivlin, ha espresso le proprie preoccupazioni per gli effetti di “segregazione” che potrebbero esserci “per gli ebrei orientali, per gli ultra-ortodossi, per i drusi, per le persone LGBT“.

Rivlin si riferiva in particolare alla clausola 7B, ora cancellata, che avrebbe perfino permesso la creazione di “comunità composte da persone della stessa fede o della stessa nazionalità” con la possibilità di escludere tutte le altre: una definizione assai esplicita di apartheid. La nuova formulazione del testo di legge (“Lo stato considera lo sviluppo degli insediamenti ebraici come un valore nazionale e agirà per incoraggiarne e promuoverne la creazione e il consolidamento“) comunque palesa un favoritismo etnico-religioso preoccupante, anche ricordando la dolorosa storia degli ebrei etiopi, da molti considerati “non ebrei”.

Come ha spiegato esplicitamente Netanyahu, la legge definisce la sovranità nazionale in termini etnico-religiosi per stabilire nello stato israeliano un nuovo equilibrio tra democrazia ed ebraicità, tra diritti individuali e diritti nazionali, a favore dell’ebraicità e dei diritti nazionali (e a scapito della democrazia e dei diritti individuali, ça va sans dire). E l’uguaglianza? Benny Begin, che pure è un compagno di partito di Netanyahu, aveva proposto un emendamento per inserire questo principio nel testo della legge, ma il parlamento ha votato di no. E le strade non hanno protestato.

L’ipocrisia dei partiti arabo-israeliani

Ma allora chi può difendere l’uguaglianza davvero per tutti in Israele? Forse i parlamentari arabi? Peccato che quando si parla di diritti delle persone LGBTQIA ci si scontri sempre con l’opposizione aperta del partito islamista Ra’am (Lista araba unita). E i partiti arabi laici, Balad (Assemblea nazionale democratica) e Ta’al (Movimento arabo per il rinnovamento)? Preferiscono tacere o farfugliare qualcosa come “non è una priorità“. Ma in questo modo anche loro negano l’uguaglianza come principio fondamentale e imprescindibile.

L’avvocato palestinese Jawad Bulus si infuria: “Chi rifiuta di combattere una forma di discriminazione in nome di una mentalità tradizionalista si discredita nella sua difesa degli oppressi. Chi cerca di blandire delle categorie della popolazione per guadagnare voti alle prossime elezioni, pensando che siano problemi troppo complessi o tabù insormontabili, si ritroverà prigioniero di quelle stesse categorie. Chi non difende gli altri e gli emarginati si ritroverà emarginato a sua volta e condannato all’impotenza, solo con le proprie illusioni sul marciapiede da cui vedrà partire il treno della storia“.

E allora dove cercare una proposta in cui l’uguaglianza sia non uno strumento politico, ma l’obiettivo? “Tutti gli esseri umani sono uguali, al di là delle loro differenze” ha dichiarato la parlamentare araba Aida Touma-Suleiman, esprimendo il suo sdegno per l’atteggiamento dei partiti arabo-israeliani nei confronti del progetto di legge contro l’omofobia presentato da un suo collega, l’ebreo Dov Khenin. Touma-Suleiman e Khenin non sono uniti dall’etnia o dalla religione, ma dalle idee politiche e dall’appartenenza al partito comunista Hadash (Fronte democratico per la pace e l’uguaglianza). E questo ha molto da insegnarci.

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì
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