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Nell’istante stesso in cui ho posato il mio piede sul molo del porto di Haifa, ho smesso di essere un oggetto e finalmente sono diventato un soggetto“. Per capire i 70 anni di Israele, che si celebrano oggi, tutti dovrebbero leggere la vibrante testimonianza rilasciata 10 anni fa dallo storico israeliano Zeev Sternhell. Lo studioso ha ricordato con parole esaltanti la nascita del nuovo stato: “Il fatto che quegli stessi ebrei che erano finiti nei ghetti, cacciati per le strade, uccisi e massacrati, ora si rialzassero e creassero uno stato per loro stessi mi sembrava davvero un miracolo: era un evento storico che nasceva da una dimensione quasi metafisica“.

In quella stessa occasione, Sternhell ha rivendicato il fatto di sentirsi “supersionista” e al tempo stesso ha accusato il sionismo di essere in procinto di trasformarsi in un “movimento coloniale” che non solo portava a ingiuste privazioni per i palestinesi, ma che alla lunga avrebbe distrutto Israele stesso. 10 anni dopo la sua visione è diventata ancora più cupa. A gennaio di quest’anno, da grande studioso della nascita del fascismo in Europa e da sopravvissuto alla Shoah che ha sterminato la sua famiglia, ha pubblicato un editoriale dal titolo emblematico: “In Israele cresce il fascismo e c’è un razzismo simile al nazismo degli albori“.

Semplificazioni VS realtà

Sì può essere “supersionisti” e accusare i governi di Israele di derive fasciste? Sì, e la contraddizione è solo apparente, come lo è nel caso di un altro importante storico israeliano, Benny Morris.

Quest’ultimo riconosce che la nascita dello stato ebraico ha prodotto la “terribile tragedia dei palestinesi” e anzi, insieme agli altri esponenti della cosiddetta “nuova storiografia israeliana” come Ilan Pappé e Avi Shlaim, ha contribuito a ricostruire i massacri, le espulsioni e gli stupri (negati dalla storiografia “ufficiale” precedente) che hanno segnato la cacciata dei palestinesi nel 1948. Eppure in una celebre intervista ad Ari Shavit su Haaretz nel 2004 non ha esitato a dichiarare che il principale errore sarebbe stato non completare la “pulizia etnica (sic!).

Ecco, Sternhell e Morris si contraddicono solo in apparenza e solo se seguiamo la tendenza assai comune di semplificare e banalizzare al massimo le vicende israeliane e palestinesi al solo fine di individuare da una parte o dall’altra un popolo da santificare e un altro da demonizzare. Questo processo è tipico anche nei discorsi sui diritti delle minoranze sessuali, ma se vogliamo dare dei giudizi fondati sulla realtà dobbiamo prima capire meglio i contesti e la loro complessità.

100 anni di contraddizioni

Le contraddizioni apparenti sono iniziate ancor prima della nascita di Israele. Suona strano, per esempio, ricordare che, all’interno del governo britannico di David Lloyd George, il solo a opporsi alla dichiarazione del 1917 del ministro degli esteri Arthur Balfour a favore della nascita di un “focolare ebraico” in Palestina, sia stato l’unico ministro ebreo, Edwin Samuel Montagu.

Le sue parole volevano essere paradossali, ma si riveleranno invece profetiche: “Ignoro cosa questo implichi esattamente, ma suppongo che ciò significhi che i maomettani e i cristiani dovranno cedere il proprio posto agli ebrei e che questi ultimi dovranno avere la preferenza in ogni cosa e dovranno essere assimilati alla Palestina come gli inglesi lo sono all’Inghilterra o i francesi alla Francia“. E ancora: “Forse bisognerà concedere la cittadinanza solo dopo un esame di religione“.

Verità contrapposte

Tutte queste complessità, tutte queste posizioni che esulano dagli schematismi, però, spariscono nei discorsi comuni, in cui emergono solo la grande e monolitica verità filo-israeliana o la grande e monolitica verità filo-palestinese. E questo avviene anche per le questioni LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali). I filo-isrealiani esaltano la lunga storia di conquiste delle minoranze sessuali nello stato mediorientale, parlano quasi di un paradiso in terra, nascondono sotto il tappeto gli aspetti più controversi e, di fronte alle critiche di chi ricorda i diritti dei palestinesi, gridano subito all’antisemitismo.

Dall’altra parte, i filo-palestinesi troppo spesso preferiscono chiudere gli occhi di fronte ad alleati davvero antisemiti o alle gravi violazioni dei diritti commesse da una leadership palestinese vuota, corrotta e vergognosa, negano l’esistenza di quei discorsi di sterminio degli ebrei che giustificano l’esistenza di Israele, si abbandonano a logiche complottiste e a retoriche gravemente vicine a quelle fasciste e naziste: ecco gli ebrei subdoli e infingardi che odiano gli omosessuali, ma fingono di riconoscere i loro diritti solo per ingannare il mondo!

Una posizione filo-umana

Bersagliati dagli uni e dagli altri, non è facile mantenere una posizione che oserei definire “filo-umana”, e cioè che stia dalla parte degli esseri umani e dei loro diritti indipendentemente dalla loro etnia, dalla loro religione, dalla loro posizione nel conflitto. Non è facile, ma è necessario. Non si tratta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma di stabilire criteri chiari e di chiederne il rispetto da parte di tutti.

Non si può essere dalla parte dei diritti e applaudire Israele perché riconosce i diritti degli omosessuali israeliani ebrei bianchi e in nome di questi diritti ignorare o giustificare la violazione gravissima dei diritti dei palestinesi. Non si può essere dalla parte dei diritti e chiudere occhi e orecchie di fronte alla persecuzione delle minoranze sessuali o ai proclami di sterminio degli ebrei. Non è coerente e soprattutto non è morale.

Una crisi di moralità

È la moralità che si è persa completamente in questo eterno battibecco tra filo-israeliani e filo-palestinesi: trionfa l’amoralità del paraocchi, in cui tutto quello che facciamo è ammirevole e impeccabile e tutto quello che fanno gli “altri” è deplorevole e vergognoso per il semplice fatto che rifiutiamo di guardare la realtà e basiamo i nostri giudizi su un mondo immaginario fatto su misura dei nostri pregiudizi.

Chi ama Israele dovrebbe fare del ripristino della moralità una priorità in queste celebrazioni dei 70 anni dello stato, invece di continuare, di fronte a ogni possibile critica, a premere l’acceleratore su una censura che strumentalizza e banalizza l’antisemitismo. Quanto potrà sopravvivere, infatti, uno stato che, per esempio, reagendo con morti e feriti alle manifestazioni pacifiche della Marcia del ritorno, indigna il mondo e dà evidentemente ragione a Yousef Munayyer, direttore di U.S. Campaign for Palestinian Rights (Campagna USA per i diritti palestinesi) quando dice: “Gli israeliani non difendono vite: difendono una recinzione“? [1]

Democrazia apparente

Zeev Sternhell preconizza un “bagno di sangue” per un Israele testardamente incaponito nelle sue scelte colonialiste (Nelson Mandela preferiva parlare di “apartheid“, come fanno anche alcuni giornalisti e studiosi israeliani). Ma la prima vittima è la democrazia, anche se suona paradossale per “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Da una parte ci sono i palestinesi, a cui è negato ogni diritto, e dall’altra gli israeliani non ebrei, che godono di diritti inferiori agli israeliani ebrei, in esplicita violazione di quella uguaglianza di fronte alle leggi che è il fondamento principale delle democrazie moderne.

Gli israeliani non ebrei sono sottorappresentati nelle istituzioni (sono il 21% della popolazione, ma rappresentano solo il 14% dei parlamentari e il 6% dei funzionari pubblici, mentre sono assenti dal governo e esclusi dall’esercito) e discriminati dalle politiche sociali: per esempio, la spesa pubblica privilegia i cittadini ebrei, ai quali sono concesse anche numerose agevolazioni per l’acquisto di abitazioni e di beni di consumo in virtù dell’assolvimento del servizio di leva.

Ebraico, non democratico

Ma non è solo questo è il problema: come mostrano le ricerche, per la maggioranza degli israeliani ebrei l’esclusione politica e la discriminazione economica degli arabi è accettabile. Il 69% degli ultra-ortodossi e il 46% dei nazionalisti religiosi, anzi, vorrebbe uno stato ancor meno democratico: la metà dei partiti della coalizione al governo fanno parte di queste forze politiche.

Non è un caso se con il governo di Benjamin Netanyahu non solo la condizione dei palestinesi è peggiorata, ma lo stato israeliano è diventato sempre più “ebraico” e sempre meno “democratico”, fino all’approvazione di una nuova legge (che sarà ratificata nei prossimi giorni) che stabilisce che “lo stato di Israele è la casa nazionale del popolo ebraico” e che “il diritto all’autodeterminazione nazionale nello stato di Israele appartiene solo al popolo ebraico“, mentre l’arabo perde il suo status di lingua ufficiale. Addirittura, si stabilisce ufficialmente che in alcuni luoghi potranno vivere solo i cittadini ebrei.

Intanto il parlamento discute una proposta di legge che permetterebbe al potere legislativo di invalidare le sentenze della Corte suprema, organo che spesso è stato l’unico baluardo della difesa dei diritti fondamentali.

SOS pluralismo e laicità

Se la democrazia sta male, il pluralismo sta pure peggio: il razzismo non colpisce solo la minoranza araba, ma persino gli ebrei di origini etiopi, emarginati, vittime di costanti violenze poliziesche e di politiche controverse, come la somministrazione non consensuale di contraccettivi. Per non parlare dei richiedenti asilo, anche gay, che sono stati spediti con l’inganno in paesi dove l’omosessualità è punita con il carcere. Il giornalista israeliano Bradley Burston scrive amaramente: “Il sionismo è diventato razzismo: nel paese si può esprimere qualunque opinione, a patto che sia contro gli arabi, i neri, i palestinesi, i migranti“.

Neppure la laicità gode di buona salute: se l’ortodossia ebraica ha avuto sempre molto potere, il 30 aprile di quest’anno il parlamento ha approvato una legge  che impone ai tribunali di emettere sentenze che tengano conto della “legge e tradizione ebraiche“. In pratica, quando le leggi dello stato non sono abbastanza esplicite, i giudici dovranno decidere in base alla halakha, cioè alla normativa religiosa tradizionale dell’ebraismo. C’è un braccio di ferro “tra l’autonomia dell’individuo e la tradizione ebraica“, come sintetizza con preoccupazione Ofer Zalzberg, analista a Gerusalemme dell’International Crisis Group.

Il pinkwashing degli integralisti

Il crescente potere degli integralisti religiosi, comunque, non si manifesta solo con le vittorie in parlamento, ma anche annullando in pratica i progressi civili compiuti in teoria: per esempio, la vittoria festeggiata dagli omosessuali quando hanno conquistato il diritto ad adottare è stata completamente annullata dal fatto che, in nove anni, solamente tre coppie hanno potuto usufruire di questo diritto. Intanto può succedere che la maggioranza in parlamento bocci in un solo giorno 5 proposte di legge su 5 a favore dei diritti LGBT subito dopo aver festeggiato… la Giornata dei diritti LGBT!

Diventa difficile, a questo punto, difendere la politica israeliana dalle accuse di pinkwashing: gli stessi partiti che spendono milioni per pubblicizzare all’estero Israele come paradiso gay-friendly, sono quelli che rifiutano ogni avanzamento legislativo a favore delle minoranze sessuali e che boicottano dall’interno gli avanzamenti ottenuti per via giudiziaria. E allora, in occasione dei suoi primi 70 anni, chi ama Israele dovrebbe scegliere se amare un paese democratico, pluralista e laico o un paese colonialista che punta alla supremazia di un’etnia e di una religione. E non dovrebbe nascondere la testa sotto le sabbie mobili.

Pier Cesare Notaro
©2018 Il Grande Colibrì
foto: elaborazione da raandree (CC0)

[1] Non bisogna dimenticare che anche le autorità palestinesi reprimono con violenze e carcere le proteste pacifiche dei propri abitanti.

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