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Anche un giornale autorevole come Il Corriere della Sera fa la svolta, alimentando la retorica anti-immigrazione, forse nella speranza di vendere di più in tempi in cui le politiche restrittive sull’accoglienza prendono sempre più piede e minacciano il diritto d’asilo (riconosciuto dalla nostra Costituzione, dalla Convenzione di Ginevra e da altri trattati internazionali), e in cui persino la sinistra accetta che il governo di cui fa parte proceda al respingimento forzato come già avevano fatto Minniti e Salvini. E così Il Corriere finisce per copiare Il Giornale.

Il quotidiano di estrema destra nel 2015 aveva pubblicato un’intervista a un anonimo mediatore culturale che aveva sostenuto che i richiedenti asilo LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali) mentivano alle commissioni per avere un permesso di soggiorno. E ora il Corriere pubblica una “strabiliante” inchiesta intitolata “Permessi di soggiorno per i migranti, l’escamotage dell’orientamento sessuale”.

Già il titolo svela un livello preoccupante di incompetenza, dal momento che dimostra come non si conosca la differenza tra il termine “migranti” e l’espressone “richiedenti asilo”. L’inchiesta, attraverso un montaggio costruito su misura, suggerisce una narrazione ben precisa, con una lettura apparentemente inequivocabile: quelli che si dichiarano gay nelle commissioni quasi sempre mentono e gli avvocati e gli sportelli per migranti LGBTI li aiutano a farlo. Possiamo considerare veritiera questa affermazione? Proviamo ad analizzare i “fatti” riportati nel video.

1. Il reportage parte con l’idea che i richiedenti asilo siano tutte persone che hanno come unico obiettivo una casa a tre piani e un televisore al plasma: questa scelta del montaggio non sembra voler far altro che rilanciare i luoghi comuni sul “falso profugo” arrivato in Italia solo per fare una vita da nababbo. Un inizio che non fa granché onore al dover di obiettività della stampa.

2. Il primo intervento è quello di un’anonima avvocata che decide di confessare che falsifica memorie e storie, forse per intascarsi i soldi del gratuito patrocinio. Una scelta piuttosto incomprensibile: perché far scoppiare uno scandalo che potenzialmente potrebbe rovinarle gli affari? È interessante anche notare come il servizio affermi che l’avvocata “di casi ne ha avuti più di 500”: frase sapientemente costruita, perché lascia intendere che la professionista avrebbe aiutato più di 500 “falsi omosessuali”, ma che in realtà può anche significare che ha seguito 500 casi giudiziari di qualsiasi tipo. Certo non suona molto esperta un’avvocata che definisce il Gambia un paese sicuro (non lo ha considerato tale neppure il ministero degli interni, nel suo ultimo vergognoso decreto). Non fa miglior figura la giornalista, Francesca Ronchin, quando afferma che “in Gambia ormai c’è una democrazia”: il Democracy Index (indicatore di democrazia) dell’Economist nel 2018 definiva il paese come un “regime ibrido”, tra l’altro con un punteggio sull’orlo della dittatura e ben lontano anche dalle “democrazie imperfette”.

uomo kenya africa maglietta

3. Dal montaggio sembra che l’avvocata si piazzi davanti alla questura, prenda i richiedenti asilo già in fila per l’appello e gli spieghi sul momento che, anche se non sono gay, devono fingere di esserlo. Lasciamo giudicare a voi la credibilità della situazione.

4. A questo punto la giornalista intervista su un marciapiede dei ragazzi che, a quanto si lascia intendere, frequenterebbero gli incontri per migranti LGBT di Arcigay Roma. Con grande delicatezza e grande comprensione della natura umana, parte con la domanda diretta: “Tu sei gay?. Chissà, forse le smentite sono veritiere, ma quante persone provenienti da paesi profondamente omofobi avrebbero risposto di sì a questa domanda fatta da una sconosciuta in mezzo alla strada, forse alla presenza di persone che non sanno nulla? Si fa così un’inchiesta seria?

5. Finalmente arriva la prima e unica testimonianza di una persona a viso scoperto, l’iracheno Dinyar, che “gay lo è per davvero” (ce lo assicura con grande coerenza la stessa giornalista che dedicherà tutta la fine dell’inchiesta al fatto che non si può mai dire davvero se una persona è davvero omosessuale o no). La giornalista gli rivolge una domanda che è già una risposta: “Mi stai dicendo che in questi incontri che fate all’Arcigay non c’è nessuno gay a parte te?”. E Dinyar risponde: “Sono omosessuale, riconosco chi è omosessuale e chi non è omosessuale”. Si chiama “gaydar”, una parola formata da “gay” e “radar”: come ha dimostrato la scienza, il gaydar, situato sotto la ghiandola pineale, capta le vibrazioni e il tintinnio dell’orientamento sessuale degli omosessuali. È la prova definitiva.

6. Torna un ragazzo intervistato prima, che dice di venire “qui” (all’Arcigay, si suppone) per la prima volta, mandato dall’avvocato. Un secondo ragazzo dice che l’avvocato gli ha detto di andare “all’ufficio dei gay”. Nessuno dei due afferma che l’avvocato lo ha mandato allo sportello sapendo che non è veramente omosessuale. In ogni caso, non si capisce come il fatto che una persona non gay si presenti per la prima volta a uno sportello LGBT sia anche solo una vaga prova di un malfunzionamento dello sportello stesso.

7. Si inizia a parlare di tessere. Il problema sembra essere il fatto che vengono tesserati richiedenti asilo forse non gay. Ma nello strano mondo in cui vive la giornalista una tessera di Arcigay è una sorta di certificato di omosessualità (a parte forse qualche membro del KKK, nessuno la considera tale, meno che mai i giudici). Ma i ragazzi dicono che è un consiglio dato dagli avvocati. Cioè, a dire il vero dice tutto la giornalista e una persona si limita a rispondere di sì. Ah, altro piccolo dettaglio: un’associazione che negasse l’iscrizione a una persona in base alla sua nazionalità o al suo orientamento sessuale violerebbe la legge.

uomo nero sguardo triste

8. Finalmente arriva il momento più scottante: l’intervista a un “collaboratore Arcigay”, che afferma che il 99,9% dei richiedenti asilo non sono gay. Non solo non viene ripreso in volto, ma non si accenna neppure a che tipo di collaboratore sia. Un volontario o cosa? Lavora allo sportello o ad altre attività? Ci dobbiamo fidare: potrebbe essere chiunque, ma sicuramente sa tutto, no? Ovviamente anche lui, come l’avvocata, è molto astuto nel denunciare pubblicamente un’azione truffaldina che casomai avrebbe tutto l’interesse di tenere nascosta…

9. La giornalista inizia a parlare dei ricorsi e del fatto che molte richieste rigettate dalle commissioni territoriali sono poi approvate dai tribunali. Ci offre delle percentuali veritiere. Ma perché le commissioni non riescono a cogliere l’effettivo bisogno di una protezione e procedono a dinieghi che riempiono le agende dei tribunali? La causa è “escamotage dell’orientamento sessuale” o magari la qualità delle motivazioni dei dinieghi e l’operato delle commissioni territoriali che rispondono al potere politico governativo (leggi: Minniti prima e Salvini poi)?

10. Interviene Silvia Albano, giudice della Sezione civile di Roma che esamina i ricorsi. La giornalista, a quanto sembra, la inserisce con grande correttezza giornalistica in un’inchiesta su un sistema truffaldino ordito da avvocati e Arcigay Roma senza affrontare con lei direttamente questo tema. Si limita a sondare la possibilità che esistano richiedenti asilo che si dichiarano gay senza esserlo. La giudice giustamente fa notare che il cambio di narrazione tra la commissione territoriale e il tribunale può essere motivato dalla vergogna: in molti casi non sono persone che fingono, ma persone che, a causa del loro passato di persecuzioni, durante l’intervista davanti alla commissione non avevano piena coscienza di cosa raccontare (anche perché spesso c’è di mezzo la figura del mediatore che suscita timore poiché proviene dallo stesso paese di origine del richiedente asilo).

Insomma, per ricapitolare l’inchiesta costituisce un attacco feroce allo sportello di Arcigay Roma, ma alla sua base non c’è nessun elemento concreto, nessun dato dimostrato e una sola testimonianza diretta, ma fondata sul gaydar. La giornalista astutamente dice e non dice, ma il suo tono accusatorio suggerisce tutto.

Questa narrazione pilotata è un pessimo esempio di giornalismo: se c’è qualcosa che non funziona, è giusto denunciarlo, anche e soprattutto a tutela di chi opera bene, ma bisogna portare fatti e non illazioni. Il Corriere della Sera, invece, si limita ad avviare la macchina del fango contro l’intero sistema di riconoscimento della protezione internazionale alle persone LGBTI, danneggiando il lavoro svolto gratuitamente dagli sportelli associativi sparsi per tutto lo Stivale. E danneggiando soprattutto chi, già con fatica e tra mille ostacoli, cerca protezione e salvezza in Italia dopo esser stato perseguitato in patria a causa del proprio orientamento sessuale.

Lyas Laamari e Pier Cesare Notaro
©2019 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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