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Doveva essere il luogo in cui i rifugiati LGBTQ* potessero trovare protezione e invece la “casa sicura” della Coalizione Gay e Lesbica del Kenya (GALCK) era diventata il regno in cui imperversava un padre padrone autoritario e violento. Dopo che un’ospite transessuale ha denunciato di avere subito abusi sessuali da parte del responsabile della struttura di accoglienza (GALCK), è scoppiato lo scandalo, che è dilagato quando si è scoperto che altri rifugiati si erano lamentati per essere stati ridotti in schiavitù dall’uomo e che la Coalizione aveva rimosso l’aguzzino solo per un breve periodo, per poi richiamarlo a gestire la “casa sicura”. La vicenda, secondo alcuni attivisti, potrebbe segnare la fine di GALCK (Identity Kenya) e, in ogni caso, rivela quanto possa essere difficile la vita dei rifugiati LGBTQ* nel mondo.

Proprio in questi giorni, infatti, l’Organizzazione per il Rifugio, l’Asilo e la Migrazione (ORAM) ha pubblicato la sua ricerca “Porte che si aprono”, in cui ricostruisce l’atteggiamento delle organizzazioni non governative (ONG) che si occupano di rifugiati e richiedenti asilo nei confronti di lesbiche, gay e transessuali. Ed il quadro che ne emerge non è molto confortante. Sicuramente la vicenda della struttura keniota è una tragica eccezione, ma non sempre le cose vanno per il verso giusto. Se il 95% degli intervistati ritiene che le persone LGBTQ* meritino protezione in caso di persecuzione e il 90% dichiara di essere disposto ad aiutarle, solo il 64% degli operatori non condivide un giudizio morale negativo sugli omosessuali e solo il 57% sui transessuali. Posizioni omofobiche e transfobiche sono diffuse soprattutto negli enti africani, asiatici e sudamericani.

Il ruolo delle convinzioni religiose, per una volta, sembra relativamente ridotto: anche la stragrande maggioranza degli operatori umanitari che dichiarano di farsi guidare dalla propria fede, infatti, denuncia l’ingiustizia delle persecuzioni contro le minoranze sessuali e si dice desiderosa di aiutare i rifugiati omosessuali e transessuali. Un intervistato ambiguamente spiega: “Per i cristiani, questi temi rappresentano una sfida interessante. Io credo che sia possibile restare saldi sulle proprie convinzioni su quel che è giusto e quel che è sbagliato, pur continuando a mostrare compassione e a fornire servizi agli utenti vulnerabili, indipendentemente dal loro stile di vita“.

L’ostilità aperta, dichiarata, è generalmente poco diffusa, ma troppo spesso gli operatori manifestano disagio nei confronti della diversità sessuale, incapacità a relazionarsi con lesbiche, gay e transessuali, indifferenza.  Le parole di un intervistato riassumono un atteggiamento molto comune: “Chi se ne importa dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere? Aiutiamo i rifugiati indipendentemente dal motivo della loro persecuzione“. Si creano così, spesso con le migliori intenzioni, ambienti incapaci di accogliere le persone LGBTQ*, di sostenerle nei bisogni legati alla loro sessualità e identità e di aiutarle nel percorso per ottenere protezione internazionale: per un omosessuale perseguitato, non dichiarare il proprio orientamento significa non esporre il reale motivo della persecuzione e dunque della domanda di asilo.

Si apre inoltre un circolo vizioso: visto che le organizzazioni non si mostrano chiaramente accoglienti nei confronti di omosessuali e transessuali, i rifugiati e richiedenti asilo gay, lesbiche e trangender preferiscono non manifestare la propria diversità sessuale e identitaria. E alla fine le organizzazioni neppure si rendono conto di avere la necessità di migliorare la propria azione per un’utenza di cui ignorano aspetti fondamentali. Tutto ciò motiva tanto le richieste di corsi di formazione per gli operatori sui temi dell’omosessualità e della transessualità, quanto l’esistenza di associazioni e progetti specificamente dedicati a rifugiati e richiedenti asilo LGBTQ*, come ORAM negli Stati Uniti ed il gruppo Immigrazione e Omosessualità dell’Arcigay italiana, un’esperienza di cui il movimento dovrebbe essere orgoglioso.

 

Pier
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