Skip to main content

Noi, che prima di essere immigrati e seconde generazioni LGBTQIA, cresciuti o nati in Italia, siamo soprattutto cittadini che si riconoscono in più identità e nei diritti civili. Noi, cittadini che vogliamo uscire dall’immobilismo culturale e religioso delle nostre comunità di appartenenza, per accendere, come una torcia, un dibattito su laicità, ateismo, omosessualità e diritti civili. Noi, cittadini che ci siamo ricercati due volte. Noi, generazione liquida. Noi, che proveniamo da paesi in cui l’omosessualità e l’allontanamento dalla religione dei propri genitori è reato. Noi, al margine del dibattito. Noi, doppia minoranza che guardiamo lontano, oltre il coraggio. Parlare di noi sarà lo sgarro verso chi fa finta di non vederci e il web sarà il luogo della nostra primavera. Raccontiamoci! Sveliamoci! Partiamo dalla parola. Da noi.

Sono nato in un giorno di pioggia intensa, a mezzogiorno. Almeno così mi ha sempre detto mia madre. Tutti erano molto felici perché ero il primo nipote maschio. In Pakistan, come un po’ ovunque, un figlio maschio porta più felicità. Semplicemente perché le donne si sposano e si trasferiscono nella casa del marito, mentre gli uomini rimangono in casa propria, tendenzialmente, per sempre. Allora loro sono davvero “nostri”, mentre le figlie sono altrui proprietà. Ecco, per questo motivo, mi racconta mia madre, quella casa, quel giorno, sembrava contenere il segreto della felicità.

La mia infanzia mi ricorda solitudine: ho due fratelli, più piccoli, e i miei genitori sembravano sempre essere più preoccupati a badare a loro che a me. Mi ripetevano sempre: “Sei il più vecchio, i più vecchi si devono sacrificare”. Oggi, a 23 anni, non ho ancora capito per cosa. E soprattutto perché.

Mi sono, poi, trasferito in Italia. Avevo 11 anni. Ero convinto che la mia vita sarebbe cambiata, e così è stato: ho realizzato di essere omosessuale. Mi ricordo ancora quel giorno: stavo guardando il mio migliore amico delle medie e ad un tratto mi sentii felice. Sentivo le famose farfalle nello stomaco. Avevo 13 anni.

Lo dissi prima ai miei amici che ai miei genitori. Ero un ragazzino, forse troppo ottimista: pensavo sarebbe andata bene, ma il 90% di loro smise di rivolgersi a me come prima.

Lo dissi poi a mia madre, andò meglio. Rimase in silenzio per alcuni minuti, e poi: “Sei mio figlio, a prescindere”. Ci scherzò su, mi disse: “Meno male che ti vestivo di rosa, allora!”. Lo dissi poi a mio padre, non saprei dire se sia andata bene o male: è ancora convinto che l’omosessualità sia una fase, infatti mi vieta di frequentare bar gay o avere amici omosessuali. Così, secondo lui, la mia fase passa prima.

Oggi ho 23 anni. Vivo la mia omosessualità nella maniera più tranquilla possibile: sono apertamente dichiarato con tutti. Non mi nascondo perché mi voglio bene. La mia religione, l’islam, sembra essere chiara – sebbene le religioni siano tutt’altro che chiare – e condanna l’omosessualità. Però mi chiedo: come può un Dio condannarmi quando mi ha creato?

Molte sono le domande che mi sono fatto in tanti anni, senza mai ottenere delle risposte complete. Ma non mi importa molto: perché io sono felice così come sono. Nessuno può né deve farmi una colpa perché amo un uomo. Non si può condannare chi ama. Come si fa a condannare l’amore? Oggi sono felice perché ho degli amici fantastici, un amore di quasi cinque anni che, però, fa parte del passato, studio ciò che amo. Nessuno può condannarmi perché sono felice di volermi bene, tanto bene da non dover nascondere la mia parte essenziale.

 

S.
testimonianza raccolta da Anes
©2017 Il Grande Colibrì

Seconde generazioni LGBT – Così ho ucciso mia madre

Seconde generazioni LGBT – Non ci basta la discrezione

Leave a Reply