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A Entebbe, in Uganda, si è svolto il primo gay pride. Non è solo la prima manifestazione dell’orgoglio omosessuale nella storia del Paese africano, ma anche il primo evento di questo tipo dopo l’annullamento da parte della Corte costituzionale della legge anti-omosessuali. Una legge che era considerata una tra le più repressive al mondo: per i gay era previsto il carcere a vita“. Questo è (tutto) quello che ha scritto corriere.it. Il primo Pride in Uganda: la notizia, succulenta, è stata ampiamente ripresa da tantissimi giornali e da innumerevoli siti LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), che avrebbero però potuto facilmente verificare nei propri stessi archivi come avessero dato notizia di altri Pride sempre in Uganda già l’anno scorso e anche l’anno prima ancora.

Altri sono stati più corretti, ma, pur di non rinunciare allo scintillante aggettivo “primo” nel titolo, hanno rimarcato con eccessiva enfasi come si trattasse del primo Pride dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge sull’ergastolo contro gli omosessuali in Uganda… come se il primo fatto fosse conseguenza del secondo e come se, in meno di due settimane, si fossero potute celebrare chissà quante altre manifestazioni. Le inesattezze sul “primo Pride della storia” e la grancassa sul “primo Pride dopo l’annullamento della legge anti-gay” forse sono utili, oltre che ad aumentare i propri lettori, anche a catturare momentaneamente l’attenzione dell’opinione pubblica, ma siamo sicuri che proporre costantemente un’informazione pompata e adulterata non finisca per produrre effetti controproducenti?

Il problema non è solo che il sensazionalismo alla lunga desensibilizza (e allora, se non scorre sangue, perché interessarsi a qualcosa?), ma anche che questo modo di “fare informazione” diventa un modo per distruggere l’informazione: trasformando il flusso dei fatti in una catena di montaggio da cui estrarre titoli ad effetto, si impedisce a sé stessi e al pubblico di formarsi una memoria storica (quanti hanno ricordato di aver letto – o persino scritto! – un articolo sui Pride ugandesi del passato?) e dunque di comprendere il contesto dei fatti di cui ci si illude di venire a conoscenza. La legge annullata? Ottimo! Il primo Pride? Grandioso! Si festeggiano le belle notizie, anche perché ben pochi hanno rammentato come, in Uganda, l’omosessualità continui ad essere un reato punito con il carcere.

Allo stesso modo, in questo agosto di pseudo-primati, molti media hanno raccontato del primo imam dichiaratamente gay che ha aperto la prima moschea gay-friendly e che ha celebrato le prime nozze islamiche omosessuali: è l’algerino Ludovic-Mohamed Zahed, collaboratore de ilgrandecolibri.com. Ma il primo non era stato anni fa l’americano Daayiee Abdullah, intervistato nel 2011 da ilgrandecolibri.com? E prima di lui non era stata la volta del sudafricano Muhsin Hendricks? Ogni volta che la stampa si accorge dell’esistenza di un imam gay, gli conferisce il titolo di “primo”: un fenomeno di apertura importante che si sta rafforzando da anni viene così appiattito in una sequela di figurine di padri fondatori di cui dimenticarsi nel giro di qualche giorno.

Intanto, in questo mese in cui attrarre i pochi (?) lettori rimasti a casa è sempre così difficile, è scoppiato un nuovo immenso scandalo: dall’altra parte dell’oceano, un commesso di un negozio Apple ha emesso una ricevuta su cui avrebbe scritto una probabile offesa omofobica. “La Apple gli regala un insulto omofobo sullo scontrino” titola sobriamente huffingtonpost.it, mentre si aprono infinite discussioni e analisi su questo fatto così rilevante, qualcuno grida al boicottaggio dell’azienda e tutto il resto, Uganda e imam gay compresi, sbiadisce nella propria “irrilevanza”: il sensazionalismo, in fondo, può essere una forma socialmente più impegnata di menefreghismo.

E infatti ecco che dopo pochissimi giorni arriva puntuale il nuovo scandalo che sostituisce (sui social network e nella memoria) il precedente: il libricino di barzellette sui gay del settimanale Visto. E piovono accuse di cattivo gusto, di omofobia, di incitamento alla discriminazione, di istigazione al suicidio. In mezzo a questo polverone, più o meno giustificato che sia, è mancata una riflessione interna sul fatto che, ad esempio, la tanto vituperata battuta di copertina (“Ti va di giocare a nascondino“; “Ok, se mi trovi mi puoi violentare; se non mi trovi… sono nell’armadio“) è presentata come divertente da moltissimi siti e forum gay, compresa la vecchia versione della pagina web di un’associazione come Arcigay Milano (arcigaymilano.org), ancora perfettamente accessibile da chiunque.

Ecco un altro effetto del sensazionalismo: se ogni affronto è mortale, se ogni battaglia è decisiva, diventa inevitabile la costante chiamata alle armi per crociate-lampo che si estinguono nel giro di pochi giorni e che distraggono dai pericoli veri. E così finiamo ad agire come quei cani di campagna che rincorrono ogni singola macchina che passa davanti al cascinale, senza mai, ovviamente, acchiapparne nessuna.

Come spesso succede, la quantità non è indice sufficiente di qualità: corriamo il pericolo di bearci di un’ondata di notizie, cioè di segnalazioni dell’esistenza di fatti, che, però, rischia di spazzare via le informazioni, cioè la capacità di comprendere questi fatti e, di conseguenza, di agire efficacemente per produrre nuovi e migliori fatti. Per questo i media che davvero sono intenzionati ad aiutare le persone LGBT dovrebbero raccontare magari meno cose, ma dovrebbero raccontarle meglio, e i lettori dovrebbero rifiutare di avere notizie false, dopate o decontestualizzate e dovrebbero pretendere di essere trattati come cervelli da far funzionare e non semplicemente come dita a cui far cliccare un “Mi piace”.

 

Pier
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