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Quando il mio tempo è arrivato
Nessuno poteva convincermi,
Neanche tu.
Sono un animale trascurato,
Tralasciato dal suo stesso gruppo.
Chairil Anwar (1922-1949)

Ragazzini in mutande ballano sfrenati sui cubi, sotto di loro, nelle discoteche gay di Giacarta e di Kuta (Bali), sempre piene in ogni week-end, sono centinaia i turisti venuti da tutto il mondo e, ancora di più, i giovani indonesiani – alcuni anche troppo giovani e “disponibili”. Alla loro stessa età altri ragazzi,  vestiti di tutto punto e armati di bastoni assediano e assaltano associazioni per i diritti umani, night club e altre realtà giudicate immorali: è il Fronte dei Difensori dell’Islam (FDI; sito). Normali contraddizioni in un paese di 240 milioni di abitanti sparsi su un territorio grande più di sei volte l’Italia e frantumato in 17mila isole e isolette, 300 etnie, 750 tra lingue e dialetti?

In un intrico umano come questo le contraddizioni non possono che essere la norma, ma è anche vero che l’Indonesia è a un bivio: largamente secolarizzata, la nazione sud-asiatica deve scegliere se percorrere la strada della laicità fino in fondo o se fare marcia indietro e diventare un paese conservatore, guardiano di quella idea di “tradizione” propagandata dagli integralisti religiosi che, paradossalmente, rischia di spazzare via la “tradizione” vissuta da generazioni di indonesiani e giudicata con scandalo dai colonizzatori olandesi: l’accoglienza della diversità sessuale nell’arcipelago, infatti, ha una storia che si perde nella notte dei tempi, come le cerimonie dei gemblak, giovanissimi danzatori legati da un rapporto pederastico con i warok, guide carismatiche dei villaggi (leggi).

Gli anni del regime di Suharto (wiki), generale che prese il potere nel 1965 per imporre modernità e repressione, furono molto duri per le persone LGBTQ*, ma la sua caduta nel 1998 non ha risolto tutti i problemi: se da una parte la comunità queer ha potuto finalmente organizzarsi con maggiore libertà, dall’altra le battaglie moralizzatrici delle forze conservatrici hanno sostituito nella retorica la guerra al comunismo (uno o due milioni di oppositori uccisi, con la benedizione dell’Occidente) di Suharto. La crisi economica del 1997-98, da cui l’Indonesia non si mai completamente ripresa, ha reso più facile il compito di chi ha individuato nell’immoralità sessuale uno dei capri espiatori principali dietro al quale nascondere l’altissima corruzione della classe dirigente.

Non è un caso, allora, se i primi gravi incidenti si siano verificati subito dopo la caduta del presidente-dittatore: dal 1999 non sono rari i congressi di associazioni LGBTQ* annullati o vietati dalle autorità per le minacce dell’FDI o di altri gruppi fondamentalisti. Nel marzo 2010, ad esempio, è stata annullata la conferenza asiatica di ILGA (International LGBTI Association) che si doveva tenere in un hotel di Surabaya (Giava orientale) (leggi): decine di teppisti hanno comunque fatto irruzione nell’albergo per accertarsi che nessuno dei 150 attivisti previsti fosse presente. Questi assalti sono stati condannati con forza da molti, dai partiti di opposizione alle associazioni femministe, passando per gli studenti musulmani, ma il governo rimane generalmente indifferente e silente.

Il contrasto ai gruppi fondamentalisti violenti è molto blando da parte delle forze dell’ordine, che anzi sono accusate di imprigionare gay, lesbiche e transgender senza che abbiano commesso reati (l’omosessualità è legale in gran parte del territorio), ma accusandoli ingiustamente di prostituzione e di molestie sessuali. Purtroppo, come denunciato più volte da organizzazioni per i diritti umani locali (leggi e leggi) e internazionali (leggi), molte persone LGBTQ* vengono malmenate, stuprate e a volte persino lasciate morire nei commissariati di polizia e nelle carceri. Le denunce giudiziarie di questi casi sono pochissime perché le vittime sono traumatizzate e temono ritorsioni da parte delle forze dell’ordine.

Nel 2003 i partiti conservatori hanno proposto di punire con sette anni di carcere chi avesse rapporti sessuali con persona dello stesso sesso (ma anche 12 anni di prigione per rapporti anali o orali eterosessuali) (leggi): per fortuna la proposta di legge è stata respinta e non è stata mai ripresentata. Nello stesso periodo, però, la provincia autonoma di Aceh, dove vive circa il 3% delle popolazione indonesiana, ha deciso di adottare la sharia, applicandola però in una versione piuttosto moderata e solo ai cittadini di fede islamica. Esistono casi di persecuzione delle persone LGBTQ*, ma sono piuttosto simili ai casi registrati purtroppo anche in tutto il resto del paese di cui abbiamo appena scritto.

Con l’introduzione della sharia si può registrare ad Aceh solo una maggiore frequenza degli abusi di polizia e la persecuzione, con allontanamento coatto, per alcune coppie omosessuali (leggi). E’ comunque significativo che nella provincia operino liberamente alcune organizzazioni LGBTQ*, come Bintang Metamorfosa o Violet Grey. Un inasprimento delle regole di moralità sessuale (con pubbliche frustate per gli omosessuali e addirittura morte per lapidazione per gli adulteri) è stato approvato, ma il governatore della provincia si è sempre rifiutato di ratificare le nuove norme (leggi). Anche il governo centrale di Giacarta ha protestato, ma molto debolmente, per il timore che ogni contrasto tra la capitale e la provincia autonoma di Aceh possa essere strumentalizzato dai movimenti secessionisti, molto forti nella zona.

E’ stato invece proprio il legislatore centrale ad approvare nel 2008 la legge contro la pornografia (pdf), in una versione più moderata rispetto alle proposte rigettate dal parlamento negli anni Novanta e nel 2006. La legge, nata per contrastare l’eccessiva disponibilità di dvd porno anche per i minori, vieta anche “qualsiasi testo o presentazione audio-visiva […] che mostri o suggerisca relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso”. Il provvedimento è stato duramente contestato all’estero e in patria, con manifestazioni di piazza soprattutto nelle isole abitate dalle minoranze etnico-religiose, che hanno accusato la legge di voler proibire alcune tradizioni locali (ad esempio, danze cerimoniali). In realtà, sebbene non manchino casi di arresti (leggi), l’applicazione della legge sembra essere limitata.

Infatti, oltre alla presenza di saune gay e night club nelle principali città, i media indonesiani raccontano l’omosessualità con sempre maggiore frequenza e libertà: se l’enorme successo di “Arisan!” (film con protagonista gay, baci tra uomini e lieto fine) risale al 2004 (leggi), prima dell’approvazione della legge contro la pornografia, è anche vero che le tv non si fanno molti problemi a ospitare storie di persone LGBTQ* e anzi nel mondo dello spettacolo le waria (transgender) sono spesso delle star. Con gran scorno del Consiglio degli Ulema, il massimo organo religioso del paese, che ha visto praticamente inascoltate le sue fatwe contro la “immoralità” in tv esattamente come avvenuto per gli editti contro lo yoga, il gossip e le operazioni di riassegnazione chirurgica del sesso (leggi).

Il Consiglio è un organo che, di fronte alla secolarizzazione della società, ha reagito rintanandosi nel ruolo rassicurante di conservatore di una tradizione religiosa… che però, come abbiamo già detto, è in gran parte frutto di re-interpretazioni recenti. E allora il profluvio di vacui divieti degli Ulema finisce per dimostrarsi meno in linea con lo spirito dell’Islam indonesiano “antico” e “moderno” rispetto a forme di religiosità più popolari e familiari, come la scuola coranica aperta nel proprio salone di bellezza da Mariyani, una waria 50enne che ha raccolto intorno a sé le persone LGBTQ* mal viste nelle moschee “ufficiali” e gli orfani della zona (leggi). D’altra parte, se l’omofobia è innegabilmente presente nella società indonesiana, bisogna riconoscere come la sua origine sia più sociale che religiosa.

L’omofobia indonesiana, infatti, è da inquadrare nella cultura collettivistica delle società anche non islamiche dell’Asia orientale (come la Cina, per esempio), in cui l’armonia sociale rappresenta un valore assoluto. L’individuo è chiamato a riprodurre la struttura “ordinata” rappresentata dalla famiglia eterosessuale nata da un matrimonio e ha il dovere di offrire dei figli alla società. Se affiancare al dovere della sessualità eterosessuale coniugale il piacere di una sessualità omosessuale “laterale” non era considerato molto grave, l’arrivo del modello “gay” occidentale, in cui l’omosessualità è escludente rispetto all’eterosessualità, ha portato a identificare il desiderio omosessuale come un elemento di disgregazione sociale, alimentando forme di integralismo religioso prima sconosciute.

Un discorso simile di può fare per quanto riguarda le waria, nome che deriva dalla contrazione tra “wanita” (donna) e “pria” (uomo): figlie di una tradizione antichissima, che annovera persino un re (Hayman Wuruk, sovrano di Giava nel XIV secolo), oltre a schiere di attrici e danzatrici, tra cui la balia di Barack Obama (leggi), queste persone che si identificano in un “terzo sesso” estraneo a qualsiasi binarismo sono state accolte senza grossi problemi, fino a tempi recenti (già nel 1997 la tv statale mandava in onda “I’m Vivian”, storia di una waria che nel finale sposa il suo amato circondata dalla famiglia festante, leggi; nel 2003 la stampa aveva preso in simpatia una waria candidata sindaco, leggi). La rilettura del fenomeno delle waria secondo gli schemi del transessualismo “alla occidentale” è più problematica.

Oggi le waria hanno diritto a sottoporsi all’operazione di riassegnazione del sesso, dopo la quale sono considerate anche dalla legge donne a tutti gli effetti, con la possibilità di sposarsi. Le loro giuste richieste sono molto simili a quelle delle transessuali italiane: vorrebbero poter cambiare l’indicazione del sesso sui documenti prima e a prescindere da qualsiasi operazione chirurgica, vorrebbero che queste operazioni avessero costi meno proibitivi, vorrebbero che i programmi per il loro inserimento lavorativo, pur presenti anche in Indonesia, fossero più frequenti ed incisivi, vorrebbero poter adottare bambini, ecc… Inoltre, in alcuni casi, si denuncia il fatto che la burocrazia impiega tempi sospettosamente lunghi per fornire i documenti anagrafici alle waria (leggi).

Il movimento politico LGBTQ* indonesiano ha una storia ed una vivacità senza molti pari al di fuori dell’Occidente: le prime associazioni sono nate nei primissimi anni ’80, nonostante il regime dittatoriale di Suharto. Tra le associazioni oggi più attive ricordiamo Gaya Nusantara (nata nel 1987, organizza incontri pubblici e privati sui diritti LGBTQ* e sulle malattie sessualmente trasmissibili e gestisce un telefonico amico operativo 24 ore su 24; sito), Yayasan Srikandi Sejati (dal 1998 si occupa principalmente di waria) e Arus Pelangi (nata solo nel 2005, ha acquistato in poco tempo grande visibilità; leggi), oltre a decine di organizzazioni minori. Una caratteristica rilevante è che nell’attivismo LGBTQ* indonesiano il numero delle tre componenti gay, lesbica e transgender tende a equivalersi.

Tra le attività più rilevanti del movimento, figura il Q! Film Festival, una delle rassegne cinematografiche LGBTQ* più importanti del mondo con più di 150 film proiettati ogni anno nel corso di un mese, sfidando minacce e aggressioni (Il grande colibrì). Infine, le associazioni devono lottare contro uno dei tassi epidemiologici più alti del mondo per quanto riguarda l’HIV: per le associazioni promuovere campagne di prevenzione è complicato, sia per la presenza della legge contro la pornografia sia per la paura che il virus venga associato all’omosessualità. Inoltre, nonostante sia possibile sottoporsi ai test gratuitamente, molte persone LGBTQ* ci rinunciano per paura di essere trattate male dal personale medico (leggi); per questo è stata anche aperta una clinica gay-friendly (leggi).

* * *

Abdulaziz ha 23 anni. E’ nato nell’isola di Giava, ma vive a Bali con la sorella e lavora come autista per i turisti.

“Sento parlare tanto dell’Italia in questo periodo. Io vorrei venire a viverci, perché nel tuo paese c’è libertà, qui devi vivere l’omosessualità nel privato. Davvero, me ne voglio andare: la mia vita è piena di regole, è come una prigione, sono come un uccello in gabbia”.

Cosa vuoi dire quando dici che devi vivere l’omosessualità nel privato?

“Se sei gay, non devi dire nulla. La famiglia può accettarti, ma se ti esponi troppo rischi di disonorarla. Per questo sono contrario ai gay che fanno politica: loro non pensano alla propria famiglia”.

Hai amici gay?

“Ho amici come me, ma con loro non faccio sesso. Poi ci sono tanti uomini che dicono di essere innamorati di me, ma in realtà cercano solo sesso. Questi uomini non sono gay, anzi a volte sono sposati o fidanzati, e per loro andare con altri uomini è solo un modo per passare il tempo. Io invece vorrei trovare l’amore”.

Quando fai sesso usi il preservativo?

“No, perché non vado con i prostituti e neppure io mi prostituisco: accompagno i turisti in macchina, non a letto! Ma se lo facessi con un turista, lo userei di sicuro!”.

Come hai scoperto la tua sessualità?

“Il mio primo amore l’ho incontrato in una scuola coranica. E’ una cosa abbastanza comune, molti ragazzi nelle scuole coraniche fanno sesso tra loro. Poi, dopo la scuola, mi sono informato sull’omosessualità grazie a Internet”.

Come vivi la tua spiritualità?

“Sono felice di essere musulmano. Molti musulmani, come i buddisti e i cristiani, giudicano male i gay, ma lo fanno solo perché non sanno come comportarsi con noi. Mi ha creato così il Dio e il Dio non può odiare quello che ha creato lui stesso, no?”.

Pier Cesare Notaro
©2011 Il Grande Colibrì
foto: kolibri5 (CC0)

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