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L’odore di tè e cardamomo, la noce moscata e il giallo intenso dei limoni, il miele e le mandorle tostate. Il ramadan a casa mia si preannuncia così, molte settimane prima del suo inizio.

A turno le mie zie si danno appuntamento nelle loro abitazioni, stilano la spesa e iniziano la preparazione di dolci su dolci. Un’associazione di mutuo soccorso. Ogni cosa è da loro illuminata, bagnata nell’acqua di rose, spolverata dallo zucchero a velo, immersa nel miele, impastata con la farina di mandorle, fritta, infornata, sorseggiata con del tè o del caffè speziato, il tutto accompagnato da una buona dose di pettegolezzo e auspici. I bambini passano, rubano un dolce e scappano via, ben più veloci delle ciabatte minacciose delle loro madri. Le loro mani sono rosse per l’hennè e le loro teste sono colorate. Ogni cosa è misurata, pesata, fatta riposare, impastata.

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I dolci! I loro nomi sono diversi. Tenevano compagnia a poeti, principi e visir, da El Andalus a Baghdad, da Aleppo a Zanzibar. Il loro sapore è unico, il loro significato un mare. Un’annunciazione, a cui non puoi sottrarti. E come un’orazione continua, e come un discente di una scuola coranica che si presta a recitare ad alta voce la poesia araba, dondolandosi su e giù, con tono solenne, allora anche tu non puoi sottrarti a ripetere i loro nomi e lentamente a portarli alla tua bocca: graybeh, bakhlava, fekkas, makhroud, basboussa, braiouates, khebachia…

Io lo so, anche se non sono lì, ma un po’ più lontano, un pò più a nord di qualsiasi ciabatta minacciosa araba… io lo so. So che sarebbe accaduto questo, se non ci fosse stata una pandemia di mezzo.

Sempre a nord di qualsiasi ciabatta minacciosa, passo l’ennesimo ramadan lontano da casa. Alcuni riti rimangono uguali: i dolci, gli auspici, la dedizione, le mille chiamate, le correzioni della data di inizio, mia sorella che se la ride sotto i baffi, perché le annuncio che anche quest’anno mi presterò all’ennesima recita.

uomo araboIl ramadan, per i credenti, è un mese di purificazione, di astensione dal cibo, dal bere, dal male, dai cattivi pensieri e da qualsiasi appetito sessuale. Sesso e cibo, sono concessi solo dopo la rottura del digiuno, ovvero al tramonto. Un mese sacro, ma anche un mese di gran teatro, non solo il mio, ma di una buona fetta della popolazione marocchina e di altri paesi. Non rispettare il digiuno, per una buona fetta di paesi arabo-berberi, è ritenuto oltraggio al pubblico pudore e quindi sanzionato penalmente. Nel regno marocchino, il codice penale punisce da 1 a 6 mesi di carcere, più ammenda, chiunque, di fede musulmana, venga trovato a rompere il digiuno in luogo pubblico senza una motivazione valida.

In luogo pubblico.

Tutto si fa, ma nell’ombra. Un re che si riempie la bocca di libertà, e un paese che la punisce. Un paese dove ogni forma di intimità è illegale. Illegale è baciarsi. Illegale è il sesso prima del matrimonio. Un paese ossessionato dal sesso, ma un paese sessuofobo. Vite in clandestinità, leggi che criminalizzano il cittadino e lo mantengono, agli occhi dei marocchini, in uno stato di inferiorità. Una vita confinata fra le pareti di casa.

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L’isolamento dovuto al COVID-19, ha reso difficile ai credenti (e ai non credenti) la scelta di non digiunare. Ogni anno, diversi attivisti per le libertà civili si fanno arrestare mentre mangiano in pubblico. La loro azione è potente, la loro azione è nobile, la loro azione permette il dibattito, permette ai giornalisti e ai lettori di dibattere, di discutere della libertà del cittadino e di non tacere.

La scelta di non digiunare spesso è taciuta per diverse motivazioni: evitare discussioni con la famiglia, i colleghi, gli amici, non voler essere la pietra dello scandalo, evitare problemi legali, eccetera… Ma il blocco maggiore è proprio quello della famiglia, dei genitori.

È un circolo vizioso che non ha fine, dove noi siamo gli ingranaggi che reggono questo governo del silenzio, dove ogni dichiarazione sulla propria libertà di scelta è ben pesata, limata, censurata. Ci troviamo in una duplice veste, quella della vittima e del carnefice. I primi coming out, di noi ragazzi di seconda generazione con un background musulmano, sono proprio quelli con noi stessi, sono proprio quelli che hanno a che fare con la religione, quando questa è totalizzante e riempie gli spazi di casa, le motivazioni, le discussioni a cena.

moi musulmani omosessuali in italiaSpesso mi sono trovato ad analizzare le mie relazioni con i miei cugini. Alcuni nati qui, altri, come me, arrivati in Italia in tenera età. Mi sono reso conto, che tutti e tutte, abbiamo applicato negli anni la stessa politica di relazione, ovvero la distanza.

Mi rendo conto di non vedere cugini da 5, 6, 7 anni, anche se abitano a soli 15 chilometri da casa. Agli inviti a cena si presentano solo gli zii. Sui social la prima scelta politica da attuare è quella di bloccare i parenti. Ed eccoci qua, isolati, senza la possibilità di comunicare, perché temiamo la possibilità che la nostra combattuta libertà possa indietreggiare. Che possa essere messa a rischio, per una parola detta di troppo, perché non conosciamo chi abbiamo dall’altra parte. Perché, anche se portiamo con coraggio il peso del nostro affetto, non è ancora abbastanza.

Ma è libertà questa? Vi direi di sì, vedendo con quale fatica l’ho conquistata e bramata. Ma è una libertà che appartiene a quel governo del silenzio, proprio perché lo mantiene in vita. Abbiamo limitato, anzi cancellato le relazioni familiari in nome di un metro di azione libera. Ma in quel metro di libera azione, troviamo cugini atei, agnostici, credenti che hanno comunque scelto di bere e mangiare carne di maiale, lesbiche, omosessuali, bisessuali, convertiti ad altra religione, fidanzati con persone di fede opposta alla propria, laici, la decisione di togliersi il velo o di metterselo e molto altro ancora.

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Voglio quindi condividere con voi un mio fatto personale. Una prova, per così dire.

Poche settimane fa, ho ricevuto un messaggio da un mio parente che non vedo e sento da anni, anche se abitiamo a meno di 20 chilometri di distanza: “Ciao Anas, sono ***. Spero tu stia bene. Ammetto di essere stata un po’ in dubbio sullo scriverti, visto il nostro rapporto quasi inesistente. Da poco ho avuto l’occasione di leggere qualche tuo articolo nel sito Il Grande Colibrì e mi sono sentita in dovere di farti i complimenti per quello che scrivi. Volevo solo che tu sapessi che non sei l’unico ‘apostata felice della famiglia. Ammiro molto il tuo lavoro e continua così. Buona giornata“.

Potete immaginare la mia sorpresa, ma anche il timore. Un numero che non avevo mai avuto in rubrica e ora un numero da salvare, un possibile rapporto da coltivare, una discussione che può iniziare e un metro in più d’azione ottenuto.

arabo spritzStamane qualcuno della mia famiglia ha dato il via a una piccola rivoluzione, ancora in atto, sarà una lotta continua. C’è chi chiederà conto di ogni parola detta. Mio fratello ha dichiarato ai miei la sua volontà di non digiunare e così ha fatto. Proprio oggi è iniziato il ramadan. Il dado è tratto. Sebbene fra noi fratelli fossimo già dichiarati da tempo, non vi nascondo che la sua scelta di autodeterminazione mi abbia sorpreso. Mi aspettano grandi discussioni e vivo sostegno a distanza verso la libera scelta di mio fratello, il mio fratellino.

Hurriya” (libertà), questa bella parola araba, che richiede uno sforzo immediato di pronuncia, già dalle prime due lettere. Dove la lingua vibra, si esalta, si dimena, quando raggiunge il suono della R, e si decompone quando arriva alla A. Ma resta!

Come ho già avuto modo di scrivere, “madre, la libertà, questa parola così incompresa, ma di cui faccio così tesoro, è opera tua e ora di mio fratello. È nata nella e dalla tua contestazione, ma la comprensione di essa si rinnova ogni anno, all’arrivo del ramadan“. La libertà si rinnova ogni giorno e richiede un coraggio indomito, richiede di fatto la libera parola in un libero corpo.

Anas Chariai
©2020 Il Grande Colibrì
immagini: elaborazione da rawpixel (CC0) / Il Grande Colibrì

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