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Appena una settimana fa su molti mezzi d’informazione, perlopiù in lingua francese, è comparsa una notizia che sembrava suscitare speranze: l’attivista-blogger Zak Ostmane aveva reso pubblico un manifesto per la depenalizzazione dell’omosessualità in Algeria , firmandolo con nome e cognome e suscitando un vivace dibattito anche sui social network, a partire da Facebook (algerie-focus.com). Non era la prima volta che si parlava dell’argomento: da oltre un anno è attivo il sito gayalgerie.net, mentre da sei anni il 10 ottobre si celebra, con una candela alle finestre, una giornata dedicata alle persone LGBT nel paese e promossa originariamente dalle associazioni Abu Nawas e Alouen (ilgrandecolibri.com). Ma è la prima volta che qualcuno ci mette la faccia e il nome. E rivendica con orgoglio di lottare per tutti i diritti.

In Algeria ciascuno combatte la sua lotta – ha scritto Zak nelle prime righe del manifesto – e io sono solidale con tutti: militanti per i diritti dell’uomo, per le cause femministe, per le libertà democratiche. Tuttavia queste persone non hanno mai mostrato la loro solidarietà nei miei confronti, per i miei diritti e per la mia richiesta di depenalizzare l’omosessualità“. L’attivista si è poi scagliato con forza contro gli islamisti, definiti “fratelli alligatori“, che vorrebbero la morte per i gay (lemonde.fr).

Tuttavia, pochi giorni dopo essere finita sotto i riflettori, la pagina dedicata all’iniziativa di Facebook è scomparsa. E Zak, con cui siamo subito entrati in contatto per seguire la sua lotta, ce ne spiega la ragione: “Ho cancellato io stesso la pagina, perché sono costretto in casa. Ho ricevuto serie minacce di morte e il regime dittatoriale degli islamisti mi sta facendo pressione indirettamente. Ma la cosa ancora più dura è l’essere isolato“. Nonostante tutto, l’attivista continua a credere nella battaglia iniziata: “Sono venuto allo scoperto per dare ad altri il coraggio di solidarizzare con me“.

Ma evidentemente, al di là dell’attenzione mediatica, la solidarietà non è stata granché diffusa, nonostante gli apprezzamenti della scrittrice Wasilla Tamzali, della giornalista residente in Danimarca Mouna Daadouche, della regista Nadia Al Fanni, dell’universitaria Raja Sen Slama e della blogger Lina Ben Mhenni (tutte donne tunisine). Evidentemente l’appello di Zak aveva colto nel segno nell’accusare, oltre alla classe politica e agli islamisti, anche “la stampa algerina, gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti di questo paese” che non vedono “le torture e il martirio quotidiano di una società omofobica“. E così Zak ora vive in pericolo.

(E pensare che ci sono giornalisti italiani che chiedono a queste persone di esporsi in prima persona, mettendo la propria faccia a rischio della propria libertà, e li schifano se fanno proteste in forma anonima: era accaduto appena un paio di mesi fa per l’ondata di arresti in Tunisia di cui abbiamo raccontato su ilgrandecolibri.com).

Naturalmente non è solo nel Maghreb che l’Africa si mostra omofoba, come riferito ancora appena la scorsa settimana (ilgrandecolibri.com), ma non sempre la colpa è ascrivibile all’intolleranza degli islamisti. In Nigeria a fare la battaglia di retroguardia per impedire l’apertura del paese a principi giudicati come negativi (come aborto, diffusione dei preservativi e omosessualità) sono i vescovi cattolici riuniti nella Conferenza episcopale nigeriana, i quali denunciano le ingerenze straniere che sarebbero tese a pervertire “i sani valori della nostra società” (fides.org).

Mentre in Uganda , dove una petizione lanciata su Change.org ha chiesto alla Corte penale internazionale di arrestare i principali propugnatori della legge per la pena di morte ai gay con l’accusa di crimini contro l’umanità e dove – a quanto sembra – la corte starebbe prendendo in considerazione l’arresto di politici e religiosi di primo piano (gaystarnews.com), a sostenere una legislazione gravemente discriminatoria sono le chiese protestanti locali appoggiate dai movimenti religiosi cristiani più retrivi degli Stati Uniti (nbcnews.com).

A riconciliarci un po’ con i testimoni di dio è, come spesso accade, Desmond Tutu, straordinario vescovo anglicano sudafricano , premio Nobel per la pace per la lotta contro l’apartheid, che in una bella intervista a religionnews.com difende i diritti di tutti gli oppressi, dagli omosessuali ai palestinesi e ai siriani, e manifesta grande fiducia nella figura di papa Francesco, che vede molto lontano dalle stanze del potere e vicino alla gente, nonostante le sue posizioni non proprio all’avanguardia espresse quand’era arcivescovo a Buenos Aires (ilgrandecolibri.com). Speriamo davvero che abbia ragione.

 

Michele
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