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Storia di un detenuto:
I parte: Il giorno del mio arresto
II parte: La camera di sicurezza

Credevo di sognare quando, ordinandomi: “Alzati. Girati. Cammina. Entra in macchina. Aspetta qui“, con la catena di metallo attaccata alle manette, mi trascinarono dalla stanzetta sotterranea della caserma fino in macchina all’ingresso della struttura, ma appena sentii quella fresca aria di erba appena tagliata e vidi le stelle di quella notte buia capì che maledettamente era quella la realtà.

Avevo sonno e, essendo rimasto a digiuno dalla colazione che avevo fatto di sfuggita il giorno prima, sentivo una fame boia, ma non mi pareva il caso di chiedere loro qualcosa da mangiare! L’unica cosa che sono riuscito a domandare, mentre eravamo sulla strada della prigione, era l’ora, e uno dei due agenti che mi scortavano mi disse senza voltarsi: “Sono le 2:38“…

Arrivati là, alla Dozza, dopo qualche controllo eseguito al grande cancello, mi fecero scendere e aspettare, sempre ammanettato, che finissero di controllare le altre macchine che portavano Sù, Pino e Maria. Inaspettatamente vidi Sù che scendeva lentamente con gli occhi assonnati, ma era da solo. Mentre nell’altra macchina che andava avanti lungo il cortile c’era Maria che guardava piangendo il suo ragazzo, probabilmente cercando un segno di affetto da parte sua, invece ricevette solamente l’indifferenza sofferente stampata sulla faccia di Sù.

Allunga le braccia!” mi disse la guardia penitenziaria, e aggiunse mentre mi apriva le manette: “Hai i polsi grossi, non muovere le mani che ti fai male…“. E ci portarono in quel corridoio dove da un lato le porte fortificate delle celle erano tutte aperte tranne una in fondo e dall’altro in un ufficio un agente scriveva con velocità eccezionale sulla tastiera del suo computer sulla scrivania in mezzo alla saletta. Ci chiusero in celle separate.

In quella dove mi sono trovato, nel muro del bagno, che era separato dal resto della cella con un muretto senza porta, c’era un’apertura che lo collegava al corridoio. Era un bagno turco con un piccolo lavandino all’angolo. La finestra della cella era sbarrata affinché due dita insieme non potessero uscirne. Non c’era il letto, ma il solito blocco di cemento, che questa volta però era verniciato, ma senza coperte. Trovai un sacchetto con un pezzo di pane e mezza mela verde, sembravano lì da tempo ma non m’importava nulla e li avrei divorati comunque, anche se fossero stati ammuffiti, da quanto ero affamato. La luce del neon mi bruciava gli occhi e non si poteva spegnere da dentro perché tutte le celle erano collegate e controllate da loro: o si spegnevano tutte o nessuna. Sulle pareti c’erano scritte e incisioni in tutte le lingue: nomi, numeri, proverbi, insulti e promesse di vendetta

Dopo aver aspettato un’ora circa, ecco un agente che apre la porta e mi guida fino a quella cella in fondo, dove era stata messa una coperta per terra. Mi chiese di spogliarmi. Dom! Sentii un battito forte nel cuore quando mi ha chiese di svestirmi mentre stava lì fisso a guardarmi, avevo paura di eccitarmi involontariamente una volta nudo e, per evitare quell’imbarazzo, pensai a dove erano finiti Maria e Pino e con successo riuscii a distrarmi. Mi spogliai completamente mentre l’agente rovistava e perquisiva i vestiti che mi toglievo uno per uno. Poi, standomi dietro, mi chiese di piegarmi in avanti appoggiando i palmi delle mani contro il muro, per tre volte. Poi mi chiese di alzare le mani in alto e piegarmi tenendo la schiena dritta, per tre volte anche. All’inizio non capii l’intento di quella assurda ginnastica, ma poi compresi tutto quando disse ad alta voce: “Non nasconde niente giù“.

Mi rivestii e tornai nella cella dove ero prima e lì cominciai a pensare: “Quindi, in caserma, quando Pino ha chiesto di andare in bagno e poi non ha più fatto ritorno, era uscito per salvarsi la pelle cantando al maresciallo tutto quanto? No, non credo proprio. Lui era in macchina con Sù, è stato beccato con le mani nel sacco…  Non credo che possa mai dire che non c’entrava nulla con noi…” Con questi pensieri mi addormentai seduto sul pavimento per la stanchezza e la fame che si facevano sentire sempre di più.

Non appena chiusi gli occhi – strack strack! – riecco la porta che si riapre, ma questa volta con le grida della guardia: “In piedi, tutti in fila e muovetevi uno dietro l’altro in silenzio!“. Eravamo forse in 7 ragazzi e Sù era in fondo alla fila indiana. Ci portarono lungo i corridoi e attraverso i cancelli blu interni fino all’infermeria, dove ci sono stati consegnati un sacchetto nero di quelli grandi con dentro un coprimaterasso ed un lenzuolo, un bicchiere, due piatti, una forchetta e un cucchiaio di inox e un materasso ciascuno. Ci chiamarono uno per uno da una lista e ci misero davanti alle nostre nuove celle ad aspettare che ci aprissero, la mia era numero 7bis-pianoterra, mentre Sù fu portato al piano di sopra.

Entrando nella cella, che era grande quattro metri per tre, vidi per prima cosa il tavolo attaccato alla porta, con sopra tre piatti e i bicchieri. Dall’altro lato, la porta del bagno permetteva alla luce di farmi strada. Di fronte a me c’erano due letti a castello e uno separato sotto la finestra, divisi da un armadietto alto un metro e venti all’incirca. I tre posti erano occupati ma c’era un posto ancora vuoto; lo spazio tra i due letti sul pavimento, bastava appena per metterci il materasso che avevo ancora in mano. Misi il sacco nero sotto il tavolo e sistemai il materasso accanto al letto di quel ragazzone enorme che russava assai. Appoggiai la testa sul lenzuolo piegato al posto del cuscino e osservai attentamente il resto della cella da sdraiato. Ero tanto infastidito dal russare e mi chiedevo come facevano i suoi coinquilini a dormire in mezzo a quel casino di rumori! All’improvviso, non lo sentii più e il tipo si girò verso di me chiedendo: “E’ la prima volta qua dentro?“.

“.

Per cosa sei stat’arrestato?“.

Per droga“.

Da dove vieni?“.

Sono algerino. E tu?“.

Napoletano” e continuò: “Io sono Michele, Michele il Ciccio. Come ti chiami?“.

Azhar. Si pronuncia con una zeta dolce e con l’acca in mezzo“. Cercavo di spiegare come si pronuncia il mio nome perché mi metteva a disagio quando le persone non riuscivano a dirlo correttamente, alcuni per facilitare mi chiamavano Zar, altri Yasser…

Subito dopo mi disse sbadigliando: “Se hai fame vai in bagno che ci sono le mozzarelle nel bidet, il pane lo trovi nel sacchetto appeso sotto il televisore, e ci sono anche i kiwi“. Ed io, stupito dalle “mozzarelle nel bidet”, pensai che mi parlasse nel sogno e, non sapendo come reagire, risposi: “No, grazie, sono un po’ stanco, domani mangerò, buona notte!“.

E lui: “Dai, domani parliamo. Buona notte“.

Quelle semplicissime domande che il Ciccio mi fece non erano innocenti, non mi ha parlato per farmi sentire a mio agio e neppure per prendere confidenza soltanto, ma quello lo capii solo qualche settimana dopo: erano i parametri sui quali la comunità carceraria si basava nei loro rapporti con i detenuti, ovvero le risposte che si danno a queste domande classificano il detenuto e gli disegnano il percorso che trascorrerà dentro il carcere. Se è la tua prima volta significa che sarai l’ultimo anello della catena dell’intera sezione dove sarai portato. Se sei in carcere per droga vai al primo piano con i tossicodipendenti. Se sei arabo non potrai mai essere trasferito in una sezione d’italiani, o di romeni/albanesi, ma andrai a scontare la tua pena tra i tuoi connazionali.

Michele il Ciccio si girò verso il muro e riprese subito a russare, ma questa volta non mi dava più fastidio, anzi, quasi quasi mi piaceva perché mi faceva compagnia e mi ricordava Nico, il mio compagno. Era grosso quanto lui e aveva solo i pantaloncini addosso. Ero eccitatissimo e non riuscivo più a pensare ad altro, non sentivo più la fame e mi riaddormentai appena mi misi a pancia in giù per nascondere l’erezione… L’eccitazione che provavo non era normale, era una sorta di reazione involontaria alla paura, ansia o tristezza. In effetti, mi succedeva spesso di pensare al sesso quando mi sentivo sotto pressione nei periodi di esami, quando ricordavo la mia famiglia e pensavo che non potevo più tornare da loro perché semplicemente mi mancavano i soldi del biglietto, insomma, era qualcosa che faceva di me quello che ero e che c’entra niente col fatto di essere gay o meno!

Comunque, il giorno prima ero un normale studente universitario, in meno di ventiquattro ore sono diventato carcerato, con l’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti e concorso nel reato commesso da più persone, insomma stavo letteralmente affogando, solo che non mi rendevo ancora conto di tutto ciò… Non sapevo nemmeno che m’avrebbero portato davanti ad un giudice due giorni dopo per rispondere dei miei crimini…

Azhar
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IV parte: Dieci minuti

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