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Storia di un detenuto:
I parte: Il giorno del mio arresto
III parte: L’arrivo alla Dozza

Il primo giorno in carcere lo iniziai trasferendomi in un’altra cella perché si era liberato un letto nella cella 3bis. Mi trovai con un albanese, un bell’uomo di mezz’età, cicciottello, un bel viso con un sorriso che ricordava l’attore Gerard Butler. E con un peruviano che parlava solo spagnolo, basso, con una pancia enorme. Quando entrai, verso le 9:30, l’albanese era seduto a tavola che spalmava la nutella sul pane mentre ascoltava la radio, il peruviano era sdraiato sul suo letto sotto la finestra a guardare il cielo grigio nuvoloso. Mi presentai e mi sedetti sullo sgabello vicino al letto a castello a rispondere alle stesse domande che mi aveva fatto il Ciccio quella notte, ma stavolta con più dettagli, avendo tutta la mattinata per socializzare con loro. Il peruviano mi offrì una sigaretta, poi ritornò a smarrirsi nei suoi pensieri.

A mezzogiorno sentii: “Si mangia, preparate i piatti!“, e chiesi innocentemente all’albanese: “Ma non si mangia tutti insieme in una sorta di mensa?“.

Ridendo mi rispose: “No amico, qui non è come nei film, qui fai tutto in cella!“, poi si alzò a farmi vedere la “casa”. In bagno c’era un water inglese, un lavandino con un bicchiere dove mettere gli spazzolini e il dentifricio e un altro per il sapone. In un “bidet-frigo” con dentro una bacinella blu scorreva costantemente l’acqua dal rubinetto per tener fredde le mozzarelle e i wurstel del giorno prima. La finestrina sul corridoio della sezione era coperta con dei portapiatti di plastica appesi con fili fatti dalle lenzuola e legati ai fili della lampada sul muro. Due fili, sempre di lenzuolo, erano fissati in alto da un lato all’altro con degli indumenti umidi stesi sopra.

Gli chiesi: “Ma la doccia dove si fa?“. Mi spiegò che in “infermeria”, dove ci trovavamo, le docce sono comuni, situate all’inizio della sezione, e che i due lati del braccio si alternavano durante la settimana a farsi la doccia giornaliera, un lato la fa la mattina, e l’altro la fa di pomeriggio.

Ci servirono il pranzo nei piatti passandoceli dall’apertura nella porta. Sistemammo il tavolo in mezzo alla cella tra i letti e ci sedemmo uno di fronte all’altro. Il pasto era pasta alle zucchine, carne alla pizzaiola e un’insalata, più il pane che avevano distribuito un’ora prima insieme alle mele. Mentre mangiavamo l’albanese mi raccontò come si vive nelle sezioni del penitenziario e mi spiegò che là si poteva cucinare su fornelli da campeggio comprati a spese proprie e che chi se lo poteva permettere non fermava nemmeno il carrello – intendeva il carrello dei tre pasti.

Mi spiegò anche che ogni sezione ha un giorno al “campo”, dove si può giocare a calcio o a basket, e dove c’è una palestra per chi preferisce allenarsi con i pesi. In più, mi disse che il carcere organizza dei laboratori d’arte, letteratura, cineforum, scuola e corsi vari per muratori, cucina e giardinaggio, tutto per chi voglia “uscire” dalla cella. Mi disse anche che c’è l’ora della “socialità” nella quale si permette ai detenuti di invitare una quarta persona per un paio di orette per giocare a carte, domino o semplicemente fare quattro chiacchiere. Insomma, l’edificio penitenziario sembrava offrire più libertà rispetto all'”infermeria”, perché i prigionieri che ci abitano hanno delle lunghe pene da espiare al contrario dell’infermeria, che ospita persone per cui il destino non è ancora definito.

Praticamente mi spiegò quasi l’intero regolamento interno del carcere, ma evitò di dirmi ciò che avrei imparato una volta trasferito nella sezione dove m’avrebbero portato, ossia la gerarchia, i clan, il mercato interno della moneta marrone (ovvero il tabacco e le sigarette), i veri capi che tenevano sotto controllo i carcerati… tutto questo, e non solo, all’interno della prigione.

Dopo avergli raccontato tutto l’accaduto tra arresto, interrogatorio mai fatto, e che per me era la prima volta in carcere, mi assicurò, in base alle sue esperienze e ai casi a cui aveva assistito in cinque anni di carcere, che ne sarei uscito facilmente a una condizione: “Se Sù accettasse tutte le colpe, si assumesse tutta la responsabilità togliendoti fuori dalle accuse, prendesse tutte le colpe, dalla detenzione della droga all’acquisto di essa e alla distribuzione ai clienti, tu, Azhar, ne saresti sicuramente fuori tra pochi giorni, credimi“. Poi aggiunse: “Inoltre, visto che sei uno studente universitario con un passato pulito, non dovresti aver paura, tanto, appena ti vedranno in faccia e ti sentiranno parlare, capiranno subito che sei un bravo ragazzo e che non meriti di stare qui“. Le sue parole mi colpirono nel profondo e mi rassicurarono fino a lasciarmi completamente convinto e entusiasta della sua teoria.

Passai i giorni seguenti dormendo più di dodici ore al giorno, guardando la televisione di sera, mangiando istericamente senza mai saziarmi, e scrivendo due pagine di diario ogni notte prima di addormentarmi. Ogni mattina mi svegliavo beatamente pensando che il sogno era la mia realtà, ma in meno di un minuto ritornavo miseramente sulla terra con gli occhi che mi abbandonavano, volando via dalla finestra, lasciandomi come una statua di marmo svuotata, stesa sul letto per ore.

11 maggio. Mi era stato consigliato di mettermi una camicia e di farmi la barba prima di andare al tribunale, dove avremmo risposto alle accuse poste dal pubblico ministero (pm), ma non credetti che un giudice potesse giudicarmi semplicemente in base a quello che indossavo… Quella mattina del lunedì incontrai Sù nella cella di perquisizione dove ci misero in attesa di essere spogliati, controllati e di seguito ammanettati  e portati in tribunale. Gli chiesi cosa intendeva dire davanti al gip e al pm, aspettandomi naturalmente che si prendesse le proprie colpe, ma mi rispose con freddezza: “Mi sembra che tu voglia lasciarmi da solo in questo casino, malgrado tutto quello che ho fatto per te, ma io non ci casco e non dirò un bel niente; anzi, dovremmo dividere la responsabilità, in questo modo il danno sarà inferiore a quello che potrebbe colpirci se tu negassi tutto!“.

Ma Sù, cosa stai dicendo? Se avessi avuto i soldi necessari per acquistare tutta quella droga, pensi che mi sarei buttato fuori casa mia dove stavo prima di venire da voi? Non sei stato tu a chiedermi di effettuare quelle poche consegne mensili in cambio del pagamento del mio affitto? Non ero io quello che andava in montagna ogni sabato a fare il giardiniere per 20 euro a fine giornata pur di comprarmi il tabacco e non farmi offrire una tazza di caffè da nessuno? Abbiamo mai condiviso gli 800 euro che ti portavo il giorno del mio turno di consegne? Chi ha comprato la casa giù con i soldi dello spaccio, tu o io? Allora come fai a chiedermi di dichiarare quel che non ho commesso? Come fai a fregarmi dopo avermi assicurato che ne sarei uscito perché non mi avresti mai tirato in ballo?“.

Sù rispose: “Sì, ti ho chiesto io di darmi una mano nelle consegne delle dosi, ma perché eri a corto di soldi, e poi nessuno ti avrebbe preso a casa sua gratuitamente come abbiamo fatto noi, quindi non ti lamentare ora!“.

È vero, e ti sono riconoscente, ma non è giusto che tu dica che la metà dell’eroina trovata in casa fosse mia e che noi due collaboravamo per metà… Non è onesto da parte tua!“.

Beh, dormivi sotto i tavoli dei bar, e non avevi un soldo per mangiare. Quando ti ha invitato Ali [il ragazzo che mi aveva fatto conoscere Su e i suoi coinquilini], pensavamo di farti avere una sistemazione per qualche giorno, al massimo qualche settimana, ma non che tu occupassi un posto che avremmo potuto dare in affitto a qualcun altro. Insomma, dopo averti salvato il culo dalle strade traditrici, ghiacciate e spietate di metà gennaio dove vagavi senza meta, pensavi di vivere sulle nostre spalle? Il prezzo da pagare sarebbe che tu prendessi una parte delle accuse…“.

Con un espressione determinata ma delusa da quello che sentivo da chi consideravo, una settimana prima, un amico, replicai: “E’ inutile parlare ora, l’unica cosa che so di certo è che se tu prendi tutta la colpa – primo perché sei stato acciuffato con tre cellulari, una quarantina di ‘palline’ ed i 600 euro, in pieno atto, poi perché sei l’unico che gestiva tutto quanto e sapeva della droga dentro la nostra abitazione – il gip non dovrà più approfondire le indagini e tutto sarà risolto tra qualche mesetto. Maria ed io saremo fuori e potremo aiutarti ad avere gli arresti domiciliari, ma la cosa più importante sarà che farai cadere una delle accuse pesanti, cioè il concorso nella commissione del reato, e di conseguenza la condanna sarà minore!“. Dissi ciò usando termini sconosciuti che avevo imparato dall’albanese (arresti domiciliari, articoli, condanna minore, indagini, pm e gip), non sapendo ancora quale ruolo avrebbero avuto in tutta quella storia.

La discussione finì con il silenzio assoluto di entrambi e il partire verso il tribunale. Dopo quello che avevo sentito da Sù, avevo deciso di confessare e ammettere ciò che avevo fatto, ma credevo anche che avrei potuto spiegare al giudice e al pubblico ministero i motivi per cui avevo intrapreso quella strada dello spaccio; invece, sorprendentemente, nessuno di loro mi concesse di raccontarmi, le loro domande miravano all’origine della droga e alle persone da cui andava Sù a comprarla. Non sapendo tutti quei dettagli, il mio interrogatorio durò poco più di dieci minuti. Dieci minuti che avrebbero dovuto consentire ai miei carnefici di capirmi e giudicarmi, dieci minuti che nemmeno bastano per ascoltare un solo movimento di una sinfonia, dieci minuti che appena bastano per leggere un articolo sul giornale…

Quei dieci minuti mi sono bastati per capire che il mio sogno di finire il dottorato in etnomusicologia a 27 anni sarebbe divenuto un miraggio che spariva all’orizzonte lentamente con il calar del sole, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, aspettando una comunicazione dal tribunale, aspettando una possibilità per far capire loro che quello che ho fatto l’ho fatto perché stavo per tornare a dormire sulle strade, perché non potevo tornare dai miei a mani vuote, perché avevo fame ed ero così perso che le sigarette che fumavo erano i mozziconi buttati che raccoglievo alle fermate degli autobus. Mi sono permesso di spacciare perché ero solo e nessuno sapeva quello che passavo in questo paese nuovo, senza amici e senza famiglia, senza un tetto sicuro e senza presente né prospettive per il futuro. L’ho fatto perché non sapevo cos’altro fare, perché non sapevo come o a chi chiedere aiuto.

Azhar
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V parte: Il paese dei diritti

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