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Mia madre conclude tutte le sue chiamate così, in questo modo: ripetendo più volte la frase “Koun rajul, koun rajul Anas“. È una frase che sento da sempre. Credo di capire cosa intenda mia madre con questa frase. Credo di capire cosa intenda una buona fetta dei miei connazionali marocchini, con questa frase. “Koun rajul“: “sii uomo“.

Se ti fermi, e chiudi gli occhi, puoi vederla lì, davanti a te. Bella e barocca mia madre. L’hennè nelle mani, qualche ciuffo di capelli che fa scandalo, ed esce dal velo. Una pelle bianchissima. Un viso buono, innocuo, ma di chi, in alcuni casi, non conosce timore, di chi, per condanna, conosce solo la vita pratica e non ha vergogna di contare il resto davanti alla cassiera. Con il suo tempo. Se fosse qui, mentre scrivo questo mio pezzo che andrà poi a voi, lei non potrebbe capire. Non potrebbe capire.

Vedrebbe suo figlio intento a scrivere o a studiare. Mi scivolerebbe dietro. Silenziosamente, come nelle lunghe notti di studio per la maturità. Le 3 di notte e ancora studiavo filosofia. Lei passava. Mi salutava. Si metteva seduta accanto a me e mi sentiva ripassare. Il suo modo di aiutarmi. Il suo modo di comprendere.

Arriva, arriva e vaga come un iceberg, senza radici, senza clamore. Eppure è lì, ferma. Vaga dentro. Arriva, con i suoi lunghi capelli neri, spettinati sul viso, il cuore in mano, la vergogna in fronte, ben evidente, e nel cuore l’umiltà di bambina. “Non posso aiutarti, insegnarti a leggere a capire quel che studi, ma posso stare seduta qui, ad aspettare che tu finisca, a star con te“. Una carezza. Un bacio. Una piccola preghiera e poi scivola via, nel buio della stanza. Un bacio in fronte e la buonanotte.

Come potrei salutarla in altro modo? Mia madre è analfabeta. Non conosce scrittura, o parole diverse dalle sue. “Koun rajul” è quel che conosce mia madre. “Koun rajul“.

Vedete, son nato in una casa di sole donne, posta all’estremità di una collina, in un Marocco rurale. Fatto di pietre pesanti, di terra che ti entra nelle scarpe, la sabbia che colpisce gli occhi, e anche se tu ti pulisci, è sabbia che resta. Lì. Ciò che ho conosciuto, è una piccola repubblica rosa, capeggiata da mia nonna. Mia nonna come Hasan II, mia nonna come una delle eroine di Azar Nafisi. Fin da piccolo, ho sempre avuto a che fare solo con donne: mia madre, le mie sette zie, la sorella di mia nonna, le mie undici cugine e tutte quelle che passavano per le telenovelas.

Bisognava stare attenti. Le pile della televisione finivano sul più bello. Durante un bacio, una scena erotica, un tradimento o una proposta di matrimonio. Si correva tutti. Tutti fuori, via, nell’altra e unica casa del villaggio con la televisione. Uno sciame di donne urlanti e innamorate della vita, in attesa della libertà. Posta lì, fra quella televisione e il mito dell’Europa.

Gli uomini della casa erano tutti lontani, sparsi per l’Europa, a cercar fortuna. Compreso mio padre. Quella casa di sole donne, quasi tutte analfabete, talvolta un pò isterica e talvolta un pò saffica, è stata per me una scuola di femminismo. “Kouni mra! Diri sci li bghaiti“: “sii donna, fa’ ciò che vuoi“.

Vi starete chiedendo perché parlo di tutto ciò, di essere uomini o donne. Di questo maschilismo velato, che molte donne arabe hanno incorporato negli anni, durante la loro educazione. Di questo femminismo molto fragile. A volte primitivo. Lontano. In questi giorni, nel mio Marocco, son frasi che restano.

Sii donna e fa’ quel che ti pare” è la risposta, ma anche lo slogan che molte donne marocchine hanno scelto per rispondere alla campagna contro i bikini, lanciata già da tempo nel mondo arabo e recentemente tema centrale delle prime pagine dei giornali marocchini. “Koun rajul” è invece lo slogan con cui molti uomini, invitano altri uomini a non far uscire di casa le loro figlie e le loro mogli con bikini o abiti stretti.

Ancora una volta, queste attiviste hanno utilizzato ciò che da sempre utilizzo anche io: l’ironia, la parola e il web. Lo slogan è diventato in poche ore virale e sta facendo discutere buona parte del paese. Da una parte ci sono loro, gli uomini e diverse donne, credenti, tradizionalisti, imam, che nelle strade e nelle spiagge marocchine vogliono donne morigerate, attente al decoro. E dall’altra parte ci sono tutte quelle donne, e una buona fetta di uomini, che rispondono con lo slogan “Sii donna e fa’ quel che ti pare“. Che pretendono la loro libertà.

Oh, questi abiti, questa continua smania di controllo da parte maschile, questa imposizione che non conosce confine. Donne misogine, frutto di una società patriarcale e maschilista, come in parte mia madre. Vittime e carnefici. La memoria di quella libertà, in quella casa in collina, è ben lontana.

In terra natia il motto è “No ai bikini” e nella mia Europa troviamo una certa componente politica, trasversale, che va dalla destra alla sinistra, che inneggia al “No ai burkini. Il burkini è un indumento, un costume che copre quasi per intero il corpo, lasciando liberi piedi, mani e viso. È spesso indossato da donne musulmane in spiaggia. Diverse volte, i giornali hanno riportato la notizia di donne musulmane con il burkini, cacciate via da piscine o spiagge, per il semplice motivo di indossare quell’indumento.

A quanto pare, nessuno si salva. Da oriente a occidente tutti vogliono dire la loro, vogliono imporre le loro idee alle donne. Come vestirsi, come truccarsi, come essere donna. Bikini e burkini. Se da ciò, permettetemi la battuta, per errore ne uscisse la scoperta della meravigliosa arte del Burkina Faso, ne sarei estremamente lieto.

Ah, questi uomini maschilisti, che non sanno tenerselo in tasca, in uno stato di requiem aeternam, ma che vogliono eiaculare in ogni dove! Proteggere il loro territorio, così, in una disperata visuale canina. Imporre la loro idea, per salvaguardare la “sacralità della donna“.

Perdonate il linguaggio, il mio è decisamente uno sfogo, ben superficiale e che non andrà ad approfondire la questione bikini-burkini o “velo sì, velo no“. Mi rifaccio a quella famosa frase, cari sultani del decoro, che ben molti tendono, in un eterno momento di cecità, a non leggere o a non ricordare (e per chi non l’avesse mai sentita o dimenticata, repetita iuvant): “La mia libertà finisce dove inizia quella degli altri“.

Il mio nome, Anas, è stato scelto da mia cugina. Significa “amicizia”, e non posso che essere dalla parte delle donne, essere, per l’appunto, loro amico. Essere, per l’appunto, dalla parte di chi dà, e non di chi toglie. Essere dalla parte delle donne marocchine. Dalla parte di mia madre, di mia sorella e dalla mia. Essere dalla parte di quelle strane e amabili donne, che vivevano lassù, su quella collina.

Anas Chariai
©2018 Il Grande Colibrì
foto: Il Grande Colibrì

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One Comment

  • vlad ha detto:

    chi vuole mettere il bikini se lo metta, chi vuole mettere il burkini se lo metta ma una ragazza musulmana che vuole mettere il bikini rischia le botte mentre il contrario non succede

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