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La Colombia è stata costretta da una sentenza della Comisión Interamericana de Derechos Humanos (Commissione interamericana dei diritti umani; CIDH) a scusarsi ufficialmente con una ex carcerata lesbica per averla discriminata. È accaduto la prima settimana di dicembre, in Colombia, a Bogotà: un atto simbolico che cerca, con 23 anni di ritardo, di riparare a un torto che è costato al paese una causa internazionale e una condanna della CIDH.

Al centro della vicenda Martha Álvarez Giraldo, incarcerata negli anni ‘90 con l’accusa di omicidio, una donna che, come ricorda l’importante quotidiano colombiano El Espectador, ha dedicato i suoi anni di reclusione alla più grande lotta che sia mai stata portata avanti da una prigione colombiana: quella per garantire ai carcerati omosessuali il diritto – concesso agli eterosessuali – di incontrare i compagni in privato, in modo da non costringerli, come Álvarez stessa osserva, a “scontare due pene in una” [El Espectador].

13 carceri diverse

La storia giudiziaria di Martha Álvarez inizia nel 1994, quando, a 35 anni, recentemente tornata in Colombia dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, si ritrova implicata nell’omicidio del fratello. Viene condannata a 34 anni di carcere, poi ridotti a 20, ed è infine scarcerata nel dicembre del 2003 per buona condotta: 10 anni di prigionia durante i quali viene trasferita in 13 carceri diverse, nel tentativo di spezzarla e ostacolare le sue battaglie civili.

Ed è proprio la prima di queste battaglie – la più sentita, e la più personale – a esserle valsa le scuse ufficiali del suo paese: quella per il diritto all’intimità, alla sessualità e all’amore. Scampoli di umanità indispensabili per sopravvivere dignitosamente in un contesto che inevitabilmente abbruttisce e tormenta, e la cui negazione è oggi stata riconosciuta a tutti gli effetti come discriminazione omofobica.

La lotta dalla prigione

La richiesta che ha dato origine alla battaglia non era nulla di particolarmente trascendentale: il semplice permesso di vedere, in privato e intimamente, la propria compagna, con cui Martha a quel tempo intratteneva una relazione da quasi due anni. Permesso concesso dal tribunale, ma rifiutato categoricamente dal direttore del carcere, secondo il quale si trattava di una richiesta vergognosa e denigrante. Le effusioni omosessuali, del resto, rappresentano tutt’oggi un terreno spinoso per l’ambito carcerario colombiano, come sottolinea un’altra inchiesta agghiacciante pubblicata dallo stesso El Espectador; ai tempi di Álvarez, nessuno aveva ancora saputo protestare.

Per questo, nel 1996, due anni dopo la sua condanna, con l’appoggio e il sostegno di attivisti e organizzazioni per i diritti civili, Martha si rivolge alla Commissione interamericana chiedendo parità di trattamento e fine delle discriminazioni.

La CIDH impiegherà quasi vent’anni a dare un verdetto. Nel frattempo, il sistema che Martha Álvarez sta tentando di scardinare sfodera ogni sua carta per fiaccarla e renderle la vita difficile: continui trasferimenti per impedirle di stringere rapporti umani duraturi, permanenze eccessive in cella di isolamento, incurie mediche. Quegli otto anni di sofferenze e soprusi sono raccontati dalla stessa Álvarez nel suo diario appena pubblicato, “Mi historia la cuento yo” (Bubok 2016). Ed è la storia di una violenza legalizzata, ma anche di ribellione e lotta: una lotta che ha reso Martha un vero e proprio simbolo del desiderio di rivalsa e che finalmente, dopo tanto tempo, è stata coronata dal successo.

Il verdetto della CIDH

Nel dicembre del 2003, dopo quasi dieci anni di reclusione, Martha viene scarcerata per buona condotta. In quello stesso periodo, la Corte costituzionale sta finalmente accogliendo l’istanza per cui tanto si è battuta: è di quell’anno il provvedimento che sancisce esplicitamente il diritto a visite intime anche per le coppie omosessuali. Ma la battaglia di Martha ormai non è più legata soltanto a una singola richiesta, e non è sufficiente un provvedimento tardivo – di cui lei, tra l’altro, per qualche scherzo del destino, non fa in tempo a beneficiare – per mettervi fine.

E così, dopo altri dieci anni, nel 2014, la CIDH si pronuncia finalmente in proposito: lo stato colombiano ha davvero “interferito in modo arbitrario e abusivo” nella vita privata dei carcerati, a causa di pregiudizi discriminatori, e dovrà porvi rimedio. Passeranno ancora tre anni prima che i termini della risoluzione vengano esplicitati del tutto, ma finalmente, il 6 dicembre 2017, 14 anni dopo la sua scarcerazione – e 21 dopo l’inizio della battaglia legale – Martha Álvarez ha potuto guardare in faccia un rappresentante dello Stato e riceverne le scuse.

La vittoria di Martha

La cerimonia di scuse ha avuto luogo nel carcere El Buen Pastor di Bogotà, dove Martha è stata accolta con tripudio dalle carcerate: un atto dal grande peso simbolico durante il quale il ministro della Giustizia, Enrique Gil Botero, ha pronunciato parole decise sulle responsabilità dello Stato nei confronti delle persone in sua custodia ma anche – e soprattutto – delle minoranze di genere e di orientamento sessuale.

Tuttavia, il 6 dicembre non è stato un giorno importante soltanto per il suo valore simbolico: oltre alle scuse, gli accordi stipulati prevedevano anche delle iniziative molto concrete, dalla pubblicazione e distribuzione delle già citate memorie di Álvarez presso la popolazione carceraria alla modifica del regolamento penitenziario, fino alla formazione di commissioni incaricate specificatamente di vigilare sulle condizioni dei carcerati LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali), che, come denuncia anche il Latin American Post, continuano a essere vittima – nonostante tutto – di negligenze e abusi.

La speranza, dunque, è che questo passo importante segni – per la Colombia, ma anche per il resto del mondo – un progressivo aumento di consapevolezza e di attenzione verso quei segmenti marginali della popolazione che spesso si trovano a scontare più duramente di altri l’effetto di discriminazioni e pregiudizi diffusi, in carcere così come fuori, con poche possibilità di ribellarsi. La storia di Martha insegna che farlo è possibile e che a volte, con il tempo, si può anche sperare di vincere.

Micol
©2017 Il Grande Colibrì

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