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Sebbene qualcuno abbia avuto la stramba idea di una manifestazione contro il matrimonio omosessuale, in Marocco  come negli altri paesi musulmani la popolazione LGBTQ* locale ha ben altri problemi da affrontare. Mentre a Souk el Arbaa, nel nord del Paese, due uomini sono stati condannati a tre anni di carcere (pena massima prevista dall’articolo 489 del codice penale marocchino per i rapporti omosessuali) per aver intrattenuto una relazione gay di dieci anni (Yabiladi), a Temara, nei pressi di Rabat, è iniziato il processo ad un’altra coppia accusata dello stesso “reato” (Le Figaro).

La dura condanna della prima coppia, punita con il massimo della pena, e l’immediato inizio del processo della seconda, arrestata appena una decina di giorni fa (Il grande colibrì), potrebbero essere una prima reazione alla campagna contro l’omofobia nel Paese lanciata dalla rivista Aswat (Il grande colibrì), ma sono in realtà perfettamente in linea con quanto avviene nei paesi arabi, dove la legislazione arriva anche a punizioni corporali e perfino alla pena capitale.

Tant’è che il giro di vite contro i gay non è una peculiarità nordafricana, come dimostra l’arresto di massa di cittadini di varia nazionalità in diversi internet café di Madinat al-Kuwait  accomunati dall’essere omosessuali, benché – secondo la stampa – accusati chi di violazione della legge sul soggiorno, chi di piccoli reati, gioco d’azzardo o accuse di ordine civile (al-Anba). Ma è davvero improbabile che 215 giovani, gay o lesbiche, vengano tratti in arresto e deferiti alle autorità nelle stesse ore senza che il loro orientamento sessuale abbia qualche rilevanza nella faccenda.

E dunque che senso avrebbe potuto avere esportare in Marocco una manifestazione contro i matrimoni gay che tanto (forse persino insperato) successo aveva avuto sul suolo francese? In realtà che l’idea non fosse stata geniale devono averlo considerato anche gli stessi promotori che hanno prima derubricato il raduno di massa ad un incontro pubblico e poi hanno patito il forfait improvviso di una delle leader della protesta antiegualitaria francese, la nota Frigide Barjot (nome con cui è ormai conosciuta l’attivista Virginie Tellenne), finendo con un vero e proprio flop (GayMaroc) un percorso che prometteva di replicare i successi omofobici degli evangelisti americani in mezza Africa (Il grande colibrì).

Se però le chiusure dei paesi musulmani nei confronti della popolazione LGBTQ* sono ben note e non sorprendono, non può che dispiacere che paesi che stanno muovendo decisamente in direzione di un pieno riconoscimento dei diritti di omo e transessuali facciano poi distinzioni di razza all’interno della stessa comunità. E’ purtroppo quanto ha fatto l’ambasciata degli Stati Uniti a Tel Aviv, che, pur avendo invitato una rappresentanza delle lesbiche palestinesi  alle celebrazioni per la giornata del 16 maggio, ha poi concesso la parola e l’attenzione del pubblico alle sole attiviste israeliane , reiterando un’esclusione che aveva già fatto discutere in passato e che non può certo essere casuale (Aswat).

 

Michele
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