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Per i giovani ragazzi, ho messo alle spalle le ragazze
E per il vecchio vino ho abbandonato l’acqua pura
Lontano dalla strada diritta, ho preso senza presunzione
La via tortuosa del peccato, poiché questo cavallo
Ha tagliato le redini senza rimorso
E ha portato via le briglie e il morso.
(Abu Nuwas, 756-814)

La Baghdad delle mille e una notte è esistita solo nella fantasia, eppure la capitale del califfato abbaside fu davvero una città degna, per il fervore culturale, la libertà di pensiero, la bellezza dei monumenti, l’atmosfera meravigliosa e sensuale, di essere invidiata dalle città europee medievali e narrata dalle leggende. Non è un caso se, fondata da poco, divenne la patria d’adozione di uno dei più grandi poeti arabi della storia, Abu Nuwas, cantore sfrenato del vino e dei piaceri omoerotici… Oggi la capitale irachena come appare lontana, persino estranea al proprio glorioso passato! Anche nell’immaginario collettivo i carri armati hanno preso il posto dei tappeti volanti, la miseria quello di tesori talmente grandi da riempire montagne e il pianto ha zittito i lamenti d’amore che echeggiavano tra i tetti bianchi e tondi…

Abu Nuwas, oggi a Baghdad, è solo il nome di un parco e di una strada un tempo chic. Gli amori omosessuali non sono più celebrati da raffinatissimi versi, ma subiscono una persecuzione terribile: l’Iraq è descritto da chi ci è scappato e dai report delle associazioni per i diritti umani con espressioni come “il posto peggiore al mondo per i gay“, “il luogo più pericoloso per le minoranze sessuali” o, più semplicemente, “l’inferno“. Poco cambia se ci si sposta dalla capitale alle rive dell’Eufrate, dalle province del sud al settentrione curdo: il livello di insicurezza per le persone LGBTQ* è altissimo, come registra ad esempio l’Ufficio per i Diritti Umani della missione ONU UNAMI (pdf), e la storia raccontata da Haider Jaber, rifugiato a Londra, a Brian Whitaker (leggi), per quanto terribile, è purtroppo la norma.

L’Iraq, per gli omosessuali, è un posto in cui sopravvivere nascosti, in cui morire ammazzati dalla paura o dalla violenza di nemici presenti dietro ogni angolo. L’Iraq, per chi ha più mezzi e più fortuna, è un’enorme prigione da cui fuggire (Il grande colibrì). Nella speranza di non fare la fine di Azad, il profugo che si è visto rifiutare la domanda di asilo dalla Norvegia con l’assurdo invito ad “adeguarsi alle norme socio-culturali dell’Iraq” (Il grande colibrì). Il nostro sito ha lanciato in questi giorni una campagna di pressione sulle ambasciate norvegesi perché venga accordata all’iracheno la protezione a cui ha diritto (Il grande colibrì). Ed è anche per spiegare meglio quale sia il contesto in cui rischia di tornare Azad che vogliamo raccontarvi la condizione LGBTQ* in Iraq. Facendo prima un piccolo salto indietro nel tempo…

Il partito Ba’ath sale al potere in Iraq nel 1963 e nel 1969 introduce un nuovo codice penale, in cui nessuna norma criminalizza l’omosessualità. Le cose non cambiano neppure quando Saddam Hussein ottiene la presidenza, nel 1979, anzi il nuovo rais viene dipinto come laico, lontano dalla moralità religiosa conservatrice. La vita in Iraq, per le persone LGBTQ*, è certamente difficile, violenze e ricatti sono frequenti, ma lo sono anche nel resto del mondo… Poi tutto precipita: la prima guerra del Golfo non disarciona Saddam, ma lo rende molto debole sul fronte interno, con tensioni altissime con le minoranze etniche e religiose. Il rais ha bisogno di ingraziarsi un nuovo alleato, che identifica nell’estremismo religioso islamico.

Saddam racconta di aver redatto, come ex voto per aver avuta salva la vita da intrighi e attentati, un’intera copia del Corano con il proprio stesso sangue, scrive di proprio pugno sulla bandiera nazionale la frase “Allahu akbar” (Dio è grande) e soprattutto rivoluziona, anche a colpi di riforme costituzionali, il sistema legale del paese. Nel diritto iracheno vengono iniettate dosi massicce di shari’ah e, per contrastare l’omosessualità, prima vengono introdotte forti attenuanti per i delitti d’onore (ammazzare un proprio parente gay per salvare l’onore della famiglia diventa insomma un reato minore) e poi si arriva alla pena di morte per sodomia. L’organizzazione paramilitare dei fedelissimi al rais, i Fida’iyun Saddam, iniziano a comportarsi come una sorta di polizia religiosa, a caccia di prostitute, adultere ed omosessuali.

Con la seconda guerra del Golfo, Paul Bremer, il diplomatico USA che ha guidato l’Autorità provvisoria dal 2003 al 2004, abroga tutte le riforme legislative di Saddam e reintroduce il codice penale del 1969. L’Iraq, quindi, torna a non punire più le persone LGBTQ*. In teoria. Perché la pratica è molto diversa: il paese piomba nel caos giuridico e le autorità ufficiali non riescono a imporre le proprie regole. Spuntano come funghi tribunali religiosi che, volendo imporre la shari’ah, continuano a condannare a morte gli omosessuali (leggi). I tribunali statali, a dir la verità, spesso si comportano in maniera non dissimile, interpretando in senso ampio e crudele le norme sulla moralità e sulla decenza. Anche le forze di polizia si impegnano nel “ripulire le strade” dai gay, con anche atti di violenza e omicidi extra-legali (leggi).

Nel 2005 viene presentata una bozza di Costituzione in cui si sancisce che tutte le norme sui diritti e sulle libertà sono da applicarsi a tutti, tranne ai “deviati“: le persone LGBTQ*, insomma, non devono avere alcun diritto umano, perché non sono considerate neppure umane. La proposta è talmente estrema da venire subito accantonata, ma nel testo definitivo si precisa comunque che diritti e libertà possono essere limitati in nome della pubblica moralità. Una pessima notizia per gli omosessuali, tanto quanto il fatto che si proclama che il diritto islamico (nella sua interpretazione più radicalmente di destra, ça va sans dire) debba essere il fondamento del diritto statale.

Il pericolo maggiore, però, sono gli squadroni della morte ispirati dall’ayatollah Ali al-Sistani (in una fatwa del 2005 affermò che gli omosessuali “dovrebbero essere uccisi nel peggiore, più severo modo di uccidere“) e organizzati dalle Brigate Badr. “I militanti del Badr tendono trappole ai gay tramite le chat. Organizzano un appuntamento e poi picchiano e uccidono la vittima. I maschi di 30/35 anni che non sono sposati, come quelli effeminati, sono sotto sorveglianza perché sospettati di essere gay. Se non cambiano comportamento o se non riescono a dimostrare di avere in programma di sposarsi, saranno arrestati, spariranno e alla fine saranno ritrovati morti. I cadaveri sono di solito scoperti con le mani legate dietro la schiena, una benda sugli occhi e ferite da proiettile alla nuca” racconta un attivista (leggi).

I bollettini che arrivano dall’Iraq sugli omicidi motivati dall’odio nei confronti di omosessuali e transessuali sono densi elenchi di date, luoghi e nomi, impressionanti nella loro lunghezza (leggi). Se si sommano i morti ammazzati per mano della polizia, dei tribunali, delle milizie paramilitari e delle famiglie (sembra che i delitti d’onore siano in costante aumento), si può affermare con certezza che negli ultimi anni sono state uccise diverse centinaia di persone solo a causa del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere (leggi). Fare delle stime è impresa ardua in un paese dove l’incertezza giuridica, la mancanza di ordine pubblico e l’impunità la fanno da padrone, ma secondo alcuni attivisti gli omicidi omofobici, dalla fine della guerra, sarebbero almeno 7-800.

Sebbene persino in Arabia Saudita esista un abbozzo di comunità queer, con propri rituali e luoghi di incontro (cfr. MOI Maps 3), non sorprende che in Iraq gli omosessuali non abbiano neppure uno spiraglio da cui provare a respirare ossigeno e speranza. Negli anni precedenti alla prima guerra del Golfo e alla svolta islamista di Saddam, a Baghdad un bar e il Palestine, l’hotel diventato poi famoso per aver ospitato inviati di guerra di tutto il mondo, organizzavano serate velatamente gay-friendly. Ben poco per un paese di 30 milioni di abitanti, ma tantissimo rispetto al totale deserto odierno. Oggi le persone LGBTQ* non possono far altro che nascondersi, cercare di accumulare abbastanza denaro per fuggire e, per chi crede, pregare. Non esistono luoghi di incontro all’aperto e anche le community gay su Internet sono spesso disertate.

E’ significativo, allora, scoprire che la principale attività a favore delle persone LGBTQ* in Iraq oggi sia rappresentata da una rete clandestina di sedici case-ricovero, sparse su tutto il territorio nazionale, dove chi viene perseguitato per la propria sessualità può nascondersi agli occhi di tutti, della famiglia e della società, dello Stato e dei gruppi terroristici. Nella speranza, in genere vana, di trovare un modo per fuggire e ottenere asilo in qualche paese occidentale. L’attività di queste case è gestita da Iraqi LGBT, un’organizzazione fondata nel settembre del 2005 a Londra, più di 4mila chilometri da Baghdad, da un rifugiato politico anonimo che si fa chiamare Ali Hili. Così lontana e senza nome, la speranza non ha posto in Iraq…

 

Pier
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