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Russia: una serie di attentati a Volgograd (l’ex Stalingrado) e in Daghestan (repubblica federata del Caucaso settentrionale) provoca 35 morti in soli tre giorni, dal 29 al 31 dicembre. Per il sito ultra-putiniano vz.ruè possibile che gli attacchi terroristici di fine anno siano stati finanziati dalla ‘classe creativa’ russa. Questi democratici europeisti si considerano una razza superiore, dotata di un nuovo sistema di valori creativo, fondato sulla tolleranza e sull’assenza di limiti per le libertà del cittadino“. Nel minestrone della propaganda, salafiti e omosessuali, liberali e comunisti si fondono in un unico mostro. La verità, però, è molto più desolante, come nota gazeta.ru: mentre “lo stato combatte vigorosamente i gay e i partecipanti a manifestazioni pacifiche“, “nessuna operazione di terrorismo arriva fino al tribunale“. Il regime difende se stesso e ignora la sicurezza e la libertà dei suoi sudditi.

E mentre le ombre mortali del terrorismo si allungano su Sochi, la città russa sul Mar Nero che ospiterà dal 6 febbraio i Giochi olimpici invernali, non bisogna comunque dimenticare tutte le critiche mosse al governo per gli enormi danni ambientali e sociali che sta producendo (outsideonline.com) e, più in generale, per la sua illiberalità. In questo quadro, un ruolo importante hanno anche le famigerate leggi contro la cosiddetta “propaganda gay“. In segno di protesta i capi di stato e di governo di alcuni paesi (Francia, Germania, Stati Uniti…) non si recheranno a Sochi. Barack Obama ha anzi scelto di farsi rappresentare alla cerimonia inaugurale da Bille Jean King, leggenda del tennista molto nota anche per le sue battaglie contro il sessismo e l’omofobia nello sport.

Accanto alle pressioni e agli “schiaffi” diplomatici degli altri stati, che non sempre appaiono convinti e convincenti come vorrebbero sembrare, ci si aspetta molto dagli atleti e da loro gesti simbolici. Ad esempio in Australia anche le squadre nazionali di bob, dopo la snowboarder Belle Brockhoff e molti altri atleti, hanno annunciato che esporranno il simbolo dell’iniziativa anti-omofobia Principle 6, che richiama l’articolo della Carta olimpica che vieta ogni tipo di discriminazione. “E’ un onore manifestare la nostra solidarietà verso la comunità LGBT (lesbica, gay, bisessuale e transgender)” ha dichiarato l’allenatore Steve Conklin: “Riteniamo che la nostra squadra abbia una responsabilità nei confronti della comunità degli atleti nel promuovere una cultura pienamente inclusiva” (buzzfeed.com).

Gli atleti che manifesteranno il loro dissenso nei confronti delle leggi omofobiche di Putin e, più in generale, del suo autoritarismo, però, non saranno molti. Nulla di cui stupirsi, nota Travis Waldron su thinkprogress.org: l’attivismo ha sempre caratterizzato solo una minoranza degli sportivi. I motivi sono tanti (la paura, la concentrazione agonistica, la mancata percezione del proprio ruolo di esempio…), ma su tutti trionfa il denaro: le realtà sportive “sono ormai grandi aziende che operano con mentalità aziendalistica e gli atleti sono la rappresentazione più visibile dei loro marchi. Ogni atleta che abbraccia pubblicamente una battaglia politica controversa offre alle persone che non sono d’accordo una ragione per non guardare, per non comprare i biglietti, le maglie e tutto il resto“.

In Germania l’ex campione del calcio Thomas Hitzlsperger è ottimista e si dice “curioso di vedere quello che succederà: sono sicuro che alcuni atleti prenderanno posizione” (theguardian.com) – ma lui ha aspettato di lasciare lo sport agonistico prima di fare coming out a zeit.de… Lo slalomista suo connazionale Felix Neureuther lo deluderà: non inscenerà nessuna forma di protesta a Sochi per concentrasi solamente sulle gare, anche se a Bormio, dopo aver vinto una gara di coppa del mondo, ha duramente criticato il Comitato olimpico internazionale: “Dovrebbe valutare meglio il perché e il dove assegna l’organizzazione di una olimpiade. Non è assegnare l’organizzazione solo dove ci sono più soldi” (fantaski.it).

Ma Hitzlsperger rischia di essere ancora più deluso dai suoi colleghi. In Francia Canal + ha trasmesso in questo giorni l’inchiesta “Jesus Football Club” (canalplus.fr), in cui ha raccontato la storia e le idee di alcuni famosi calciatori che si considerano fervidi cristiani. Se il difensore brasiliano di serie A Marcos Ceara, che fa il pastore evangelico nel tempo libero, ha spiegato: “Non sono proprio a favore dell’omosessualità, è una cosa che esce un pochino dal progetto di Dio“, il suo compaesano Alex Rodrigo Dias da Costa, difensore del Paris Saint-Germain, attacca: “Dio ha creato Adamo ed Eva, non Adamo ed Ivo“.

Intanto nel Regno Unito un altro famoso ex-difensore, Michael Johnson, è finito al centro delle polemiche. Alcuni attivisti LGBT hanno chiesto le sue dimissioni dal Consiglio consultivo sull’inclusione della Federcalcio inglese per aver dichiarato nel 2012 di considerare l’omosessualità come un abominio agli occhi del Signore. Johnson ha subito spiegato di aver intrapreso in questi anni un percorso di crescita e di educazione personale e ha pubblicamente ripudiato quello che aveva affermato due anni fa: “Erano cose sbagliate“. La Federcalcio lo ha preso come un modello positivo della possibilità di cambiare e superare i propri pregiudizi. Molti attivisti gay, invece, hanno tristemente deciso di non perdonarlo. E Johnson ha preferito dimettersi per evitare ulteriori polemiche (skysports.com).

Negli Stati Uniti a suscitare polemiche è stato invece Evander Holyfield, quattro volte campione del mondo dei pesi massimi e cristiano fondamentalista: il pugile ha dichiarato in tv che l’omosessualità non sarebbe normale e che anzi, molto coerentemente, sarebbe tanto un handicap da curare quanto una scelta (mirror.co.uk). Oltreoceano si potranno però consolare con la Lega nazionale di hockey: con l’adesione dei Colorado Avalanche, ormai tutte le squadre della grande associazione sportiva statunitense e canadese si sono impegnate per il progetto “You can play”, finalizzato al superamento dell’omofobia nello sport (nhl.com). Una notizia da medaglia d’oro.

 

Pier
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