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“Mi hanno sbattuto giù sul pavimento e mi hanno spalancato a forza le gambe. Poi hanno preso un manico di scopa e me lo hanno forzato dentro più e più volte. Ogni volta sembrava che le mie viscere stessero per uscire fuori. Il sangue era una benedizione, sembrava lubrificare il manico” (Matthew). Violentati. “La cosa che mi ha sempre dato più fastidio è questa: grido, urlo, lotto… e nessuno che scosti neppure le tende per vedere cosa succede” (Heath). Ignorati. “Sono stato dimesso per un disturbo della personalità e mi hanno liquidato così” (Chipman). Distrutti. Nel corso del 2012 sono stati quasi 14mila i militari statunitensi di sesso maschile ad avere subito questo trattamento da propri superiori o commilitoni. Quasi 40 casi al giorno, uno stupro ogni 37 minuti. E’ l’altra faccia di quel legame evidente e taciuto tra violenza sessuale e meccanica della guerra di cui abbiamo scritto recentemente [Il Grande Colibrì].

“Non si tratta di sesso” spiega James Asbrand, uno dei pochissimi psicologi al servizio dei soldati a occuparsi seriamente del problema: “Si tratta di potere e di controllo”. L’incontestabilità della gerarchia, l’ossessione per l’obbedienza, la giustificazione della violenza, l’esaltazione della forza sono tutti elementi che oggi fanno parte integrante del nostro concetto di esercito: in questo contesto culturale, lo stupro di alcuni soldati non è una devianza, ma è un elemento costitutivo essenziale dell’identità dell’istituzione.

Lo dimostra il fatto che neppure interventi specifici sul problema hanno avuto risultati positivi: se fino al 2011 le vittime di violenza che sporgevano denuncia venivano cacciate con l’accusa di avere avuto rapporti omosessuali (pazienza se assolutamente non consenzienti), il divieto di questa pratica non ha migliorato le cose. Oggi, secondo i ricercatori, l’81% dei soldati USA violentati preferisce non dire nulla a nessuno e solo il 7% dei casi di stupro viene discusso davanti a un giudice. Che queste violenze siano un elemento costitutivo dei nostri eserciti lo dimostra soprattutto il modo sistematico con cui l’esercito statunitense protegge i violentatori e punisce le vittime.

Meno di un soldato stuprato su cinque fa rapporto al suo superiore sulla violenza subita e molto spesso il superiore decide di non aprire un’inchiesta e di non fare nulla né per punire il colpevole né per evitare nuovi contatti tra lo stupratore (o, più frequentemente, gli stupratori, dal momento che si tratta spesso di aggressioni di gruppo): da una parte la legge riconosce questa facoltà ai comandanti militari, che non sono legalmente obbligati ad agire in alcun modo di fronte a casi come questi, dall’altra un superiore che avvii una procedura contro un proprio sottoposto violento rischia di apparire come non in grado di tenere sotto il proprio totale controllo i propri sottoposti, con ripercussioni sulla propria carriera. E’ più facile prendersela con la vittima, congedarla “con disonore”.

Le poche vittime che riescono ad ottenere una visita sanitaria per accertare la violenza fisica subita, spesso finiscono davanti a medici che li sottopongono a nuove, assurde violenze psicologiche. Provano a negare in ogni modo lo stupro (“Ragazzo, gli uomini non vengono violentati”). Provano a convincerli che, in fondo, è colpa loro (“Ti è piaciuto, eh? Dai, dimmi la verità”). Addirittura, secondo fonti citate da GQ, che ha pubblicato un lungo articolo da cui sono tratte le testimonianze qui riportate, distruggono i dossier relativi ai casi denunciati, insabbiando tutto illegalmente, ma con il massimo di protezione istituzionale.

Poi utilizzano il trauma psicologico causato dallo stupro per emettere una diagnosi di disordine mentale, ottima scusa con cui il soldato violentato viene cacciato dall’esercito americano: il problema viene smaltito così. Altre vittime, invece, vengono allontanate dalle armi per colpa di malattie sessualmente trasmissibili contratte proprio per colpa delle violenze sessuali. In questo modo il soldato congedato con disonore o per presunte turbe psicologiche non solo non ottiene giustizia e perde il proprio lavoro, ma non riceverà la pensione destinata ai veterani e avrà enormi problemi a trovare un nuovo impiego, perché congedi con queste motivazioni sono garanzie di disoccupazione.

Le ripercussioni di uno stupro sono pesantissime per i civili violentati da soldati e guerriglieri, come abbiamo già raccontato (ilgrandecolibri.com); i soldati aggrediti sessualmente da commilitoni e superiori devono sopportare gli stessi danni fisici e psicologici (“Ho smesso di mangiare e ho provato tre volte a suicidarmi” racconta Jeremy; “Tutto quello che ricordo, insieme al dolore, è il suono come di schiaffi dell’essere stuprato. Cerco di fare l’amore con mia moglie, ma non ci riesco: sono traumatizzato” dice Stovey; “Ho il terrore degli uomini. Sono gay e ho il terrore degli uomini. Non posso neppure avere un’erezione” si lamenta Jones) e l’esercito non li aiuta (i programmi contro le violenze sono riservati alle donne), ma anzi sembra fare di tutto per peggiorare la loro situazione.

Perché, occorre ribadirlo, questo tipo di violenze sono un elemento costitutivo di come sono concepiti i nostri eserciti, sono la diretta conseguenza di un impianto ideologico più ampio che pervade tutta la vita militare. Lo riconosce persino Dana Chipman, giudice-avvocato generale delle corti marziali statunitensi: “Il modo in cui socializziamo le persone probabilmente ha degli effetti su questi incidenti. Vi tagliamo i capelli, vi diamo gli stessi vestiti, vi diciamo che non avrete più privacy, che non avrete più diritti individuali: vi smontiamo fino alla vostra essenza più intima e poi vi ricostruiamo a nostra immagine e somiglianza”.

Questi sono gli eserciti, queste sono le loro ideologie, queste sono le loro pratiche. Ora tocca a noi decidere, singolarmente e come movimento, quale posizione prendere. Possiamo difendere queste istituzioni come sono e prendere in giro i “pacitonti”. Possiamo gioire per ogni ostacolo che scompare per l’accesso delle persone omosessuali ad organizzazioni di questo tipo senza farci troppe domande su cosa significhi aderirvi. Possiamo protestare per chiedere qualche piccola riforma che tratti queste violenze come rare devianze e finga di risolvere il problema. Oppure possiamo avviare una riflessione più ampia sulle pratiche e sulle ideologie militari, sul ruolo che in queste gioca la violenza brutale, e chiedere un cambiamento reale e profondo.

 

Pier
©2014 Il Grande Colibrì
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One Comment

  • Patricia Moll ha detto:

    Non so cosa dire….
    Il mondo è malato e lcuni porzioni di questo mondo lo sono ancora di più!
    Penso che il fattore scatenante sia sempre la prevaricazione sull'altro. In questo caso sul sottoposto che deve subire, tacere far finta di niente.
    E se parla sa che da vittima diventa il colpevole…. colui che ha invogliato gli altri a…
    Mirano all'obbedenza assoluta e incondizionata e se questa si ottiene solo distruggendo la psiche della controparte non se ne fanno grossi problemi.
    Terribile!

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