Per liberarsi dalle norme di genere che gli sono state inculcate da quando sono nati, i giovani sudafricani non usano lame affilate ma tessuti morbidi e giri di parole. Le loro scelte di moda e di stile, come le parole che utilizzano per descrivere i propri corpi, sfidano l’essenzialismo e l’idea secondo cui ogni nostra caratteristica esteriore sarebbe definita per sempre.
Questi giovani sudafricani, particolarmente visibili nei centri urbani come Città del Capo, si presentano al mondo in modo giocoso. Rifuggono le marche di stilisti europei che seguono logiche consumistiche: preferiscono gli stilisti locali, molti dei quali hanno colto lo spirito del momento.
Abbigliamento e colonialismo
Città del Capo, conosciuta come la “città madre”, è diventata giustamente una linea del fronte nella guerra ai ruoli di genere occidentali. È qui, infatti, che prima gli olandesi e poi i britannici hanno iniziato a colonizzare il Sudafrica sul serio.
Alle popolazioni indigene e alle persone ridotte in schiavitù, che la Compagnia olandese delle Indie orientali portò in catene in città da luoghi lontani come l’odierna Indonesia, furono strappate via non solo le loro terre, ma anche le loro identità culturali. La cosiddetta “missione civilizzatrice” le ha derubate della loro storia, degli stili con cui i loro avi si distinguevano e si esprimevano.
Per molto tempo l’abbigliamento è stata una lente fondamentale per identificare le differenze sia tra le culture sia al loro interno. I colonialisti europei nell’Africa meridionale usavano l’abbigliamento come un mezzo per distinguersi e per indicare la loro supremazia. Oggi non sfoggiano più parrucconi lunghi e riccioluti, ma nell’abbigliamento maschile di tutti i giorni appaiono echi degli abiti coloniali olandesi bianchi e neri, dei colletti di pizzo fatti a mano, degli stivali stretti con le fibbie.
Nell’aria di Città del Capo si respira ancora colonialismo. Neppure il Cape Doctor, l’impetuoso vento estivo che dovrebbe ripulire la città dal suo inquinamento, è riuscito a spazzarlo via.
Una rivoluzione di… tessuto
Non è un caso se questa ribellione contro il genere e l’eurocentrismo sia stata guidata da giovani queer, trans e di genere non conforme: la loro protesta è una forma di autoconservazione.
I cittadini sudafricani saranno anche protetti da quella che è stata definita la costituzione più progressista del mondo, ma nelle strade questo magnifico pezzo di carta è spazzato via fin troppo facilmente dalla realtà di un paese in cui, secondo un rapporto dell’Human Sciences Research Council (Consiglio di ricerca sulle scienze umane), il 67% della popolazione è d’accordo con questa frase: “Credo che siano disgustosi gli uomini vestiti da donne e le donne vestite da uomini“.
Oggi in molte aree metropolitane del paese gli uomini continuano ad andare in giro vestiti in giacca e cravatta, con scarpe di cuoio chiuse, anche nel caldo soffocante dell’estate – non è proprio l’immagine della comodità… Questa uniforme è una reliquia del colonialismo, un simbolo antiquato di ricchezza e potere maschile che ancora molti vogliono acquistare.
Il rifiuto delle norme di genere sta crescendo da qualche tempo in tutto il mondo, ma la resistenza sartoriale di Città del Capo ha una certa caratterizzazione pro-africana. È scaturita dalla vita vissuta concretamente nelle città e nelle township che le circondano, dal fatto di non avere alternative se non ribellarsi alla violenza quotidiana, alle minacce e alle intimidazioni che questi ragazzi affrontano ogni giorno per il solo fatto di esprimere visibilmente il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere.
Una recente ricerca condotta da Out LGBT Well-Being ha mostrato come l’88% delle persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e trans) che ha subito violenza poi non ha sporto denuncia.
Spazi di libertà queer africani
A Città del Capo, nota come la capitale queer del Sudafrica, i giovani spesso si rifugiano nella vita notturna, ma anche i club gay tradizionali sono ostili al non conformismo e per questo sono iniziati a emergere degli spazi queer alternativi. Qui le persone sono libere di esprimersi nel modo che preferiscono sulla pista da ballo, sotto le luci stroboscopiche, mentre i DJ mettono musica elettro underground dalle influenze da balli da sala.
In un certo senso, è una scena che ricorda “Parigi brucia” di Jennie Livingston (1990), ma la scelta e la varietà delle acconciature, dei linguaggi e degli abbigliamenti ci ricorda che questo non è un ballo in maschera nella New York degli anni ’80. La rasatura dell’androgino, la parrucca ruvida della femme che balla energicamente il gwara gwara sulla pista, la varietà delle intricate trecce colorate, i capelli a spazzola, le dissolvenze alte e i tagli afro che riempiono lo spazio, raccontano un fenomeno decisamente locale.
La notte è finita, la notte continua
Quando si accendono le luci alle 2 del mattino e si chiudono le porte del club, la vita riprende come al solito. I clubber più ricchi tornano alla sicurezza delle loro case, chiusi nelle loro auto, liberi dal giudizio degli occhi e spesso dall’ostilità delle lingue del pubblico. Alcuni si tolgono la parrucca, si puliscono il trucco e si infilano i vestiti di cambio che li renderanno insospettabili mentre useranno gli sconclusionati trasporti pubblici del paese per tornare a casa. Altri usciranno dal club e affronteranno il mondo esattamente per quello che sono.
In questo momento sembra proprio emergere, anche se in un ambiente ostile, un’immagine fresca e libera del genere e della mascolinità in Africa, un’immagine che rifiuta l’ideale maschile dominante di durezza.
Fotografie di Kyle Weeks
Testo di Zane Lelo Meslani
Prodotto da Eve Lyons per The New York Times
Tradotto da Pier Cesare Notaro
©2018 The New York Times – Il Grande Colibrì
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