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24 neonati sono stati salvati dal governo israeliano nel Nepal devastato dal terremoto. Sono i figli di coppie omosessuali israeliane nati da madri surrogate a Katmandu. Al loro arrivo all’aeroporto di Tel Aviv hanno trovato i loro padri commossi e stuoli di giornalisti e fotografi ansiosi di immortalare la fine di una vicenda che ha tenuto tutto un paese col fiato sospeso. Ma hanno trovato anche forti polemiche: se, da una parte, qualcuno ha criticato l’operazione di salvataggio ritenendola un intollerabile spreco di denaro pubblico, dall’altra i progressisti e il movimento LGBT (lesbiche, gay, bisex e transgender) ne hanno subito approfittato per denunciare le discriminazioni operate dalla legge israeliana [The Times of Israel], che non permette alle coppie omosessuali di accedere alla gestazione per altri (chiamata anche “maternità surrogata” o, con espressione comune ma scorretta, “utero in affitto”).

Tra tanti padri, giornalisti, fotografi, polemisti e attivisti, però, i bambini non hanno trovato qualcuno di importante: le madri che per nove mesi li hanno tenuti in grembo. L’operazione israeliana ha salvato tutti i bambini, ma a nessuna madre è stato concesso di lasciare un inferno dove sono morte forse più di 10mila persone e dove la sopravvivenza stessa è a rischio. Forse era inevitabile, ma ben pochi si sono accorti di queste donne e ancora meno gli hanno dedicato una riflessione.

Alon-Lee Green ha gridato il proprio scandalo su Haaretz: “Com’è possibile che tra le tante storie piene di umanità, tra i tanti post carichi di compassione, nessuno abbia menzionato queste donne, che provengono da un ambiente socio-economico difficile, che affittano il loro ventre, che sono, proprio come i bambini che hanno appena avuto, bloccate nella zona del disastro?”. E’ un silenzio che inquieta, che dimostra un’assenza di empatia terrificante. E la notizia che il governo israeliano potrebbe forse permettere che le donne in stato di gravidanza più avanzato siano trasferite in Israele il tempo di partorire, non serve a diminuire il senso di angoscia.

Alcune riflessioni – a volte legate tra loro intrinsecamente, altre collegate solo da questa singola vicenda – sembrano necessarie.

1. Esiste una grave mancanza di empatia nei confronti degli altri esseri umani provenienti da paesi “lontani”. Il problema non è nuovo né riguarda solo gli israeliani, anzi è un problema che ci tocca molto da vicino, non solo in quanto europei, ma anche in quanto persone LGBT o LGBT-friendly. Abbiamo il dovere morale di riconoscere che il silenzio sulle madri surrogate in Nepal ha ridotto una catastrofe colossale in un mero pretesto per una pur legittima rivendicazione politica. E che l’ancor più grave silenzio del movimento italiano sulle stragi di migranti nel Mediterraneo è stata la massima umiliazione possibile per il giusto discorso sui diritti LGBT come diritti umani universali, perché ha dimostrato un disinteresse incredibile per l’umanità e per il carattere universale dei diritti.

2. Le madri surrogate in Nepal non sono nepalesi, ma indiane: è uno strano dettaglio da approfondire. I gay israeliani, non potendo ricorrere alla gestazione per altri in patria, si affidano ad agenzie private che trovano madri surrogate all’estero. Chi è molto ricco può permettersi di rivolgersi agli Stati Uniti, sborsando anche più di 150mila dollari (circa 135mila euro). Ma le agenzie da anni hanno proposto pacchetti più economici (circa 30mila dollari, 27mila euro) con madri in India. Poi, quando nel 2013 anche Nuova Delhi ha precluso ai gay l’accesso alla maternità surrogata, le agenzie si sono trasferite in Nepal, ma hanno trovato più conveniente continuare ad usare donne indiane poverissime (che, alla nascita del bambino, ottengono molto meno del 20% dei profitti) da trasferire in Nepal solo per la gravidanza.

Vi sembra impossibile che la maternità sia così slegata agli istinti dell’amore e dell’affetto e così legata, invece, a logiche di profitto e sfruttamento? Non vi farà allora piacere conoscere un altro dettaglio della vicenda dei neonati salvati in Nepal: solo alcuni di loro sono andati in Israele insieme ai loro padri, altri no, perché i loro futuri genitori hanno scelto il servizio di pronta consegna a casa. Diciamolo senza ambiguità: la gestazione per altri seria e rispettosa della donna esiste e il movimento LGBT deve difenderla, ma proprio per questo deve anche essere in prima linea nel denunciare e condannare gli abusi.

3. L’immagine dei ricchi papà occidentali che volano via dall’inferno con i loro neonati, lasciando a terra le poverissime madri orientali, dovrebbe ricordarci che la principale linea di separazione e di oppressione tra gli esseri umani non passa tra eterosessuali e omosessuali, bianchi e neri, credenti e atei, e neppure tra uomini e donne o tra occidentali e orientali, ma tra ricchi e poveri. Un omosessuale ricco ha molte più probabilità di vivere bene rispetto a un eterosessuale povero – e questo è vero persino nei paesi più oscurantisti, come l’Arabia Saudita. Se si è in buonafede e se si ha un’idea almeno vaga della realtà, non si può fare a meno di riconoscere che la lotta alla povertà deve essere prioritaria per chiunque difenda la vita, la dignità e la libertà degli esseri umani.

4. L’immagine dei ricchi papà occidentali che volano via dall’inferno con i loro figli, lasciando a terra le poverissime madri orientali, è il miglior regalo che si possa fare a chi perseguita l’omosessualità dipingendola come uno strumento dello sfruttamento neocoloniale occidentale: le scelte immorali dei gay ricchi rischiano di ricadere pesantemente sui gay poveri. La retorica omofobica usata da tanti leader autoritari e religiosi fondamentalisti sull’omosessualità come imposizione dei paesi ricchi sui paesi poveri dovrebbe spingere il movimento LGBT a meditare e ad impegnarsi nella lotta alla povertà globale. Anche perché, come dimostra la non casuale somiglianza tra la mappa dei diritti e quella della ricchezza, un paese povero molto difficilmente sarà un paese che rispetta le minoranze sessuali.

5. Infine, non bisogna dimenticare i neonati ed il loro futuro. Mi riferisco non solo al dubbio sulla buona paternità di persone che scelgono di avere un figlio sfruttando la miseria altrui, ma anche alle discriminazioni in Israele. Essendo nati da ovaie di donne non ebree, il Gran Rabbinato d’Israele non considera questi bambini come ebrei sin dalla nascita: è necessaria una conversione certificata da speciali tribunali religiosi, che, però, creano molte difficoltà ai figli di coppie gay, come spiega Tamar Catz-Peled, avvocatessa dell’università di Haifa [The Jerusalem Post]. Non essere riconosciuti come ebrei non ha implicazioni solo religiose, in uno stato che dell’ebraicità ha fatto il proprio caposaldo: i non ebrei subiscono discriminazioni e gli uomini, ad esempio, non possono sposare le donne ebree.

 

Pier
©2015 Il Grande Colibrì

7 Comments

  • Carlo Corbellari sei al limite del delirio. Pier, sia gli uomini che le donne ebree israeliani possono sposare non ebrei civilmente (all'estero). Stesso vale per le altre religioni.

  • carlo corbellari ha detto:

    si molto bello ma mi chiedo: le donne sono madri nepalesi e non sono state menzionate..e i padri?? i padri sono uomini giovani nepalesi,che vivono in un paese molto gay friendly dal 2007/8..questi uomini e queste donne sono esseri di seconda mano per la mentalità razzista e nazista israeliana. la comunità gay israeliana infatti contesta questo trattamento di favore per poche coppie che erano andate in nepal…ma a parte ciò mi chiedo quale può essere a questo punto il sostegno di israele anche alla sua comunità gay: incrementare la razza, anche se via coppie omo (mal tollerate), per diventare un vero paese nazista: come non vedere una analogia razziale, in un atto così discriminante, messo in atto nei campi??

    • Il Grande Colibrì ha detto:

      Carlo, alcune precisazioni e alcune considerazioni.
      1. Parli di padri nepalesi, ma in questo caso i padri sono israeliani: viene usato lo sperma di uno dei futuri genitori.
      2. Come ho scritto nel primo punto, il problema della mancanza di empatia nei confronti dei popoli "altri" non riguarda un solo popolo. Per maggiore chiarezza, aggiungo che l'attribuzione di questo problema ad un solo popolo è essa stessa una manifestazione evidente di mancanza di empatia (quando non di razzismo manifesto).
      3. “La comunità gay israeliana infatti contesta questo trattamento di favore per poche coppie che erano andate in Nepal“: dove hai letto una cosa del genere?
      4. Se davvero lo scopo fosse quello di “incrementare la razza” anche attraverso le coppie omosessuali, Israele permetterebbe a queste coppie di accedere alla gestazione per altri anche sul proprio territorio, anzi la incentiverebbe. Invece queste coppie e i loro figli devono affrontare difficoltà e discriminazioni. Ecco, mi pare che il tuo ragionamento proprio non regga.
      5. Reputo molto preoccupanti e immorali alcune politiche israeliane che si basano sul concetto di uno stato ebraico definito in termini etnico-religiosi. Ma reputo preoccupante e immorale anche il continuo paragone con la Germania nazista: o non si ha un’idea di cos’era la Germania nazista, o non si ha un’idea di cos’è lo stato di Israele, o si cerca in questo modo di giustificare un odio viscerale e razzista. Inoltre, questi paragoni sciocchi fanno proprio il gioco di chi, in Israele, promuove quelle politiche che dovrebbero essere denunciate con equilibrio e imparzialità, cioè basandosi sulla sostanza di quelle politiche e non sull’identità di chi le attua.

  • Sabine Raineri ha detto:

    Ribattere colpo su colpo alle logiche provocatorie dei gruppi omofobi ha spinto molti di noi a schierarsi senza se e senza ma, collocandoci, a nostra volta, su posizioni che escludono e dimenticano i soggetti piu' deboli. Hai dato parole anche al mio disagio

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