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La drammatica conta, che si rinnova ogni 20 novembre in occasione del Transgender Day of Remembrance (TDoR; transrespect-transphobia.org), delle persone uccise nel corso dell’ultimo anno in tutto il mondo per colpa della transfobia potrebbe apparire “meno drammatica” se si analizzassero solamente i dati dei paesi a maggioranza musulmana: in dodici mesi nell’insieme di questi stati sarebbero state uccise sei persone trans (un sedicesimo rispetto al Brasile, meno della metà che negli USA). E i numeri registrano soprattutto un costante e sorprendente decremento nel corso degli anni: gli omicidi sarebbero calati del 55% rispetto al 2012, addirittura del 70% rispetto al 2011. Come ben noto, però, le statistiche vanno sempre prese con le pinze e, prima di giungere a facili conclusioni, occorre esaminare i dati, il modo in cui sono stati raccolti e il contesto generale dei fenomeni che vogliono rappresentare.

Visto più da vicino, il dato incoraggiante risulta il frutto complesso e difficile da valutare di un’insieme di fattori, alcuni indubbiamente positivi, altri sicuramente negativi. Innanzitutto, occorre ricordare la differente situazione socio-economica dei diversi paesi: è assai più facile che l’omicidio di una persona (e di una persona transgender in particolare) sfugga alla stampa nelle aree tribali dell’Afghanistan che in una metropoli occidentale. E quindi il dato secondo cui in Iraq non sarebbero stati uccisi trans dal 2008 è piuttosto improbabile.

L’instabilità che sta caratterizzando alcuni paesi a maggioranza musulmana inoltre da una parte abbassa le probabilità che le notizie si diffondano e dall’altra aumenta la diffusione delle violenze, verosimilmente anche contro le persone trans: per fare l’esempio più eclatante, non abbiamo notizia di transgender uccisi in Siria, ma sappiamo che nelle zone controllate dalle fazioni integraliste dei rivoltosi la pena di morte è comminata con estrema facilità, forse anche a persone trans?

In ogni caso, il paese a maggioranza musulmana dove sono stati registrati più omicidi di persone transgender risulta essere ancora una volta la Turchia , con cinque trans assassinate negli ultimi dodici mesi. Qui il problema principale è l’inazione delle forze di polizia, che sembrano interessarsi poco delle violenze perpetrate contro le donne transgender e, anzi, a volte si rendono loro stesse colpevoli di abusi. Il tasso di omicidi transfobici (0,066 uccisioni ogni milione di abitanti) in Turchia è giustamente giudicato drammatico e le manifestazioni organizzate dalle forti associazioni transessuali sono sempre numerose e partecipate (e se pensiamo che in Italia, con un tasso pari a 0,084 omicidi transfobici per milione di abitanti, il problema continua a essere ignorato, c’è poco di cui essere orgogliosi…).

D’altra parte, i progressi nell’accettazione delle persone transgender (o che comunque hanno un’identità di genere che non corrisponde al proprio sesso biologico) sono stati davvero sorprendenti in molti paesi.

Ad esempio, la discrepanza nei dati sugli omicidi delle hijra (persone del subcontinente indiano che, nate con un corpo maschile, sentono intimamente di appartenere ad un “terzo sesso” e si vestono e comportano secondo i modelli sociali femminili) tra l’India (che da sola registra più della metà delle uccisioni in Asia) e il Pakistan e il Bangladesh (dove, secondo i dati del TDoR, non avvengono omicidi rispettivamente dal 2012 e dal 2008), potrebbe essere almeno in parte spiegata dal fatto che i due stati a maggioranza musulmana hanno riconosciuto alle hijra numerosi diritti, compreso quello di registrarsi anagraficamente come appartenenti al “terzo sesso” (ilgrandecolibri.com; dhakatribune.com).

Buone notizie potrebbero arrivare a fine anno anche dal Bahrein , dove il 31 dicembre la Suprema corte amministrativa deciderà se permettere due operazioni di rettificazione del sesso dal femminile al maschile. L’avvocatessa Fawzia Janahi, che rappresenta i due giovani transessuali che hanno chiesto di essere operati, è molto fiduciosa, anche perché ha già vinto altre cause simili a partire dal 2008 (gulf-daily-news.com).

D’altra parte, in tutti i paesi del Golfo persico, compresa l’Arabia Saudita, le pressioni dei medici sulla politica affinché venga riconosciuto il “disturbo dell’identità di genere” sono sempre più forti (ilgrandecolibri.com). Inoltre, i casi sempre più frequenti di uomini e donne che si sottopongono all’estero (soprattutto in Thailandia) a operazioni di rettificazione del sesso e tornano in patria con nuove sembianze stanno mettendo in crisi anche gli esponenti più reazionari: la rigida divisione dei sessi è più tutelata riconoscendo il genere d’elezione di queste persone o accettando che, ad esempio, “donne dal corpo maschile” frequentino i luoghi riservati unicamente al genere femminile?

In Tunisia , invece, sta facendo discutere la storia che Mohamed Ali ha raccontato prima ad una nota trasmissione sportiva della Radio nazionale e poi in un talk show televisivo (dailymotion.com): nato intersessuale, alla nascita gli è stato attribuito il genere femminile e il nome di Fatima, ma sin da piccolo si è sempre sentito più legato alla sfera maschile. Dopo una brillante carriera come calciatrice, che lo ha portato a giocare per importanti squadre del Golfo persico e per la nazionale femminile tunisina, a 20 anni si è innamorato di una ragazza, che lo ha convinto a chiedere di essere riconosciuto come uomo. Grazie anche al sostegno della propria famiglia, Mohamed nel 2008 ha potuto cambiare stato civile e nome. Mettendo in crisi chi pensa che sesso e identità di genere siano due concetti naturalmente binari…

 

Pier
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